Colori d'autunno

Colori d'autunno
“ Storie che vanno via veloci disperdendosi al vento come fili di fumo. Il fumo è testimone di un fuoco. La legna finisce, il fuoco si spegne. Rimane l’odore del fumo, che è ricordo. Del fuoco resta la cenere, che è memoria. Rovistando tra la cenere si pensa al fuoco che fu. Ricordare fa bene, è un buon allenamento per resistere e tirare avanti.” (Mauro Corona)

lunedì 16 aprile 2018

Colli Euganei: LA CASA RURALE DI CAMPAGNA - Usi, tradizioni, materiali, di una passata civiltà contadina


Dal Monte Brecale, una veduta sulla campagna euganea e il Lozzo


Quante volte è capitato, durante un itinerario sui Colli Euganei, di imbattersi in vecchi manufatti abbandonati, coperti da piante rampicanti o aggrovigliate sterpaglie che ne nascondevano l’originale aspetto. Oppure in altri, abitati da gente legata ancora alle proprie tradizioni, ai ricordi di una vita, a quei luoghi così cari e amati. Come amate sono quelle mura umide e fuligginose, impregnate d’antica vita che il tempo non ha mai cancellato.

Casa Bolcato sul M.Cecilia
Questa è la prova dell’innato amore che la gente contadina ha per la propria terra; una terra, a volte, difficile da governare, dove non sempre si ottengono i risultati sperati. Nonostante ciò, lo spirito fiero e ostinato di questa gente, ha fatto sì che continuassero la loro opera d’insediamento, integrandosi perfettamente con il circostante paesaggio euganeo. In questi luoghi, un tempo sconosciuti, hanno edificato la propria casa, dando origine a una nuova vita, a una nuova fede, a nuovi sentimenti. Hanno voluto radicare qui le loro convinzioni e tramandarle di padre in figlio, facendole arrivare fino ai giorni nostri. La cultura contadina è, e resterà, una pietra miliare del nostro tempo, dove l’industrializzazione sta sempre più prendendo il sopravvento su quello che era il genuino vivere di una volta. 


Nel costruire un’abitazione, la principale cura era naturalmente la scelta del sito. Il versante doveva essere il più possibile bene esposto e soleggiato. Si preferiva ovviamente il sud; ma anche versanti rivolti a oriente o a occidente erano ugualmente buoni. Il versante rivolto a nord era evitato con cura; e così le valli sulle quali incombevano rilievi collinari che con la loro persistente ombra rendevano l’ambiente freddo e malsano. La buona esposizione, oltre che essere salutare, era gradita anche agli uomini e agli animali, consentendo il trasporto e l’uso dei carri anche nella peggiore stagione invernale, quando il terreno diventava ghiacciato e sdrucciolevole. In un versante ben soleggiato, l’edificio era orientato il più possibile con il prospetto principale verso sud.

Mucca e vitelli al pascolo - M.Lozzo
La stalla, era posta in un fabbricato retrostante; negli edifici in linea, l’agricoltore si preoccupava che comunque l’alloggio degli animali fosse rivolto a nord. Gli animali, infatti, soffrono di più la calura dell’estate, con i miasmi e i fermenti delle urine e dei letami, che non i rigori del freddo. Il terreno era preferibilmente piano. Se la casa era in collina, si cercava un pianoro sufficientemente capace a ricavare la corte per i lavori e per i movimenti del bestiame e dei carri. Si evitavano con cura i crinali, perché troppo esposti ai venti e troppo in vista. Se la costruzione doveva essere fatta in zona alta, essa si trovava opportunamente sotto la cresta (in ramocia), mai sul culmine. Per ragioni di sicurezza, l’edificio non poteva essere troppo in vista, ma doveva consentire tutta un’ampia osservazione. Era buona regola che la casa fosse visibile almeno da un’altra casa in maniera tale che, in caso di emergenza (assalti, ruberie, incendi, disgrazie), potesse essere possibile invocare un rapido soccorso. Il segnale era dato di casa in casa, alla voce, con alte grida, ma anche in altri modi, battendo forte su recipienti di latta o accendendo un fuoco nella notte, fin che il campanaro non avesse repentinamente suonato le campane a martello. Quello era il massimo segnale di emergenza. E tutta la gente accorreva sul luogo del pericolo, con zelo e abnegazione, dimenticando in quel momento qualche torto o vecchi rancori. Il terreno doveva essere solido e non franoso.


Casa rurale sul Monte Santo - Lovertino

I terreni franosi sono molto frequenti nei Colli Euganei. A volte si tratta di strati alluvionali e in precario equilibrio, di antichi accumuli all’interno di camini vulcanici o di lenti marnose. Tra i primi ricordiamo tutto il versante che va dalle ultime pendici del Venda (Pedivenda), fin giù in prossimità del cimitero di Faedo. La cronaca ricorda che almeno due volte la chiesa di Faedo è stata ricostruita a causa di smottamenti. Il contadino, in ogni luogo dei Colli, teneva ordinate le canalette e i fossati, sgombri da terriccio, foglie e da vegetazione. E dopo ogni pioggia abbondante, il primo lavoro da fare, appena uscito il sole, era la pulizia e il riordino delle canalette: smesso di piovere, la terra ancora umida rendeva meno gravoso il lavoro. A volte il contadino usciva durante gli abbondanti acquazzoni estivi a osservare il regolare corso delle acque piovane e a ritoccare dove l’opera fosse meno perfetta. Occorre però aggiungere, a proposito del sito, che anche il variare dei venti influiva nell’ubicazione della casa. Venivano evitati non solo i crinali, ma anche le posizioni esposte verso l’imboccatura di strette valli e di calti, perché qui la corrente d’aria è più frequente, anche nella buona stagione. Si riteneva che le correnti d’aria portassero danno agli animali che mettevano un pelame fitto e irsuto, ed anche alle piante i cui fiori, raffreddati dai venti, avrebbero dato minor frutto. Altrettanto importante, se non di più ancora, era la vicinanza a sorgenti d’acqua buona.

Fonte Regina - Torreglia
Alcune danno acqua perenne e molto abbondante. Famosa è quella del Buso dea Casara, sotto il Venda, nel versante verso Valnogaredo che in epoca romana pare contribuisse ad alimentare d’acqua persino la lontana Atene. E, di fatto, in tutta la zona affiorano di tanto in tanto dei robusti e ancora ben conservati tubi di trachite e anche di pietra di Nanto. Attorno alle sorgenti si formavano i gruppi di case più consistenti. L’acqua era raccolta con i secchi portati a spalle da un apposito attrezzo chiamato “bigolo”. I secchi erano di legno. Le *sorgenti si distinguevano per il differente sapore dell’acqua che a volte sapeva vagamente di ruggine, altre ancora aveva il sapore amarognolo della radice del castagno. Verso le valli invece, non era insolito trovare sorgenti dal sapore di zolfo o quello dell’acido solforico dal vago sapore di uova guaste (ovi sguaratoni). Dove la natura era avara di vene d’acqua, sorgeva qua e là qualche pozzo, per la verità non molto di frequente. Il pozzo poteva essere utilmente scavato nelle valli ai piedi di colline, o lungo i calti; ma era diffusa l’idea, forse fondata, che le acque stagnanti di pozzo non fossero sane e cagionassero malanni o addirittura epidemie. Le fontane erano luogo d’incontro, dove ci si poteva scambiare quattro chiacchiere e dove la gioventù aveva occasione di vedersi e di provare le prime simpatie e le prime ansie d’amore. Alla fontana si andava di solito con piacere. C’era chi lavava i panni, chi portava le bestie ad abbeverarsi. Il sito era recintato da siepe sempre viva di arbusti spinosi, o di aceri tenuti costantemente bassi o di teneri virgulti adatti a fare i canestri (canestreli). Scavalcare la siepe era segno di grave offesa e il fatto doveva sempre avere delle spiegazioni. A volte, quando la casa era ricca e la famiglia importante, la recinzione era in muratura. Si usava la trachite informe su spessori di circa quarantacinque centimetri con, al di sopra, un ricorso di mattoni posti a coltello. In qualche caso il mattone era sagomato e si svolgeva in profilo ricurvo. Al posto dei mattoni poteva esserci anche un ricorso di pietrame trachitico il più scabroso e irregolare possibile per fornire pochi appigli a chi tentasse di scavalcare.

Fonte Farnea
L’altezza della recinzione era all’incirca di due metri e venti circa. In corrispondenza della via che portava alla casa, si apriva un ingresso munito di due robusti pilastri sempre sormontati da un motivo ornamentale. I pilastri, mediante robusti cardini di ferro (cancani), reggevano spesso elegantissimi cancelli. Le recinzioni non erano mai in rete metallica; ed esse in ogni caso riguardavano solo il sito e il suo intorno.  Campagna e collina serpeggiavano di viottoli e tratturi liberi da ogni impedimento, dove l’uomo e i suoi animali da secoli e  millenni erano abituati andare. Le strade erano strette, nella misura di una barella: raramente la loro dimensione superava i tre metri. Erano, naturalmente, con il manto di terra sopra il quale periodicamente veniva steso uno strato di pietrisco calcareo che con l’acqua piovana e con il passaggio dei carri acquistava presto notevole tenacità. Le pendenze delle strade erano dettate dalla normale capacità dei buoi a trascinare la barella. Qualche volta, dove la natura dei luoghi non consentiva differente soluzione, la pendenza era aspra. Ricordiamo la strada che conduce a Cornoleda, quella che porta a Castelnuovo; quella che sale per Arquà Petrarca e, lungo il Monte Fasolo, a Roverello. Era una pena assistere alla durissima fatica degli animali su per tali strade. Allora i contadini si attendevano a vicenda e ognuno staccava il proprio paio di buoi per aiutarsi a vicenda. 


Prospetto di casa rurale a Lovertino

L’esterno della casa rurale era sobrio e in stretto rapporto con gli spazi interni, i quali erano disposti organicamente secondo le funzioni che erano destinati ad accogliere. Nella casa più povera ed elementare, al piano terra vi era una sola stanza, nella quale si svolgevano tutte le attività domestiche del giorno. In generale, il piano terra era costituito da più vani. In mezzo al prospetto si apriva l’ingresso che poteva ospitare anche la scala, solitamente in legno, per accedere al primo piano. A sinistra dell’ingresso poteva esserci l’ampia cucina, col caminetto e il secchiaio.

Vecchio forno in pietra per cuocere il pane
Il
tinello, serviva anche da pranzo quando c’erano gli ospiti o durante le solennità dell’anno, come il Natale, il Capodanno, la Pasqua e la festa del Santo Patrono che era giorno di sagra. Dalla cucina, per una porta sulla parete posteriore, si poteva accedere a uno stanzone che fungeva da disbrigo e, qualche volta, da cantina. In certi casi questo stanzone poteva essere usato come disbrigo cantina e stalla. Rispetto alla quota del cortile, il piano terra era generalmente sopraelevato di uno o due gradini, raramente di tre: questo per evitare che le acque piovane e le foglie portate dal vento potessero entrare in casa. Il vano della porta era incorniciato da spalle e da architrave in pietra trachitica (meale). Nelle case povere dove questo lusso non era concesso, erano sufficienti delle fasce d’intonaco un po’ rilevato a fingere la nobiltà delle cornici in pietra. Sovente, a lato dell’ingresso, vi era una pietra che fungeva da panchina, dove si sedeva l’ospite frettoloso o più alla mano, per bere un bicchiere di vino. Su quella pietra il contadino, dopo il lavoro del giorno, attendeva la frugale cena della sera. Su quella pietra era tollerato che la promessa sposa si intrattenesse col fidanzato, fino a tardi. La porta era in legno, generalmente con doghe verticali all’interno e orizzontali all’esterno. La chiusura era assicurata da catenaccio, gancio e merletta. Il pavimento nelle case più povere era in terra battuta: uno strato di circa quindici centimetri di argilla o terra creta impastata con poca calce e battute col “pistello”.  Appena il contadino se lo poteva permettere, eseguiva il pavimento in cotto, con mattoni di dimensioni pressappoco come gli attuali, disposti a spina di pesce o a correre. Ogni anno, verso l’autunno, si impregnava il pavimento di feccia d’olio per preservarlo contro l’aridità e contro il gelo.



Su di un angolo della cucina vi era un secchiaio (
seciaro), spesso ricavato in unica pietra trachitica o in pietra che si cava a Sant’Ambrogio di Verona e che si chiama appunto secciar. Sopra il secchiaio vi erano appesi due secchi di legno con attaccata la “cassa”, dove ognuno faceva, familiare o no, il proprio disbrigo. Il caminetto era nell’ambiente della cucina, di solito tra le due finestre di prospetto. Era quindi posto a sud, perché tirava di più e perché, scaldandosi alla sua fiamma si poteva osservare chi andava e chi veniva. Non vi erano mai due caminetti nella stessa stanza perché uno dei due inevitabilmente “faceva fumo”, mandandolo in giro per la stanza. Il camino era formato da una robusta soglia in pietra trachitica (piera de fogolaro), dello spessore di circa venti centimetri, poggiante su due tratti di muratura, in modo che l’altezza sul pavimento fosse all’incirca quaranta centimetri. Al centro la soglia presentava un incavo che serviva per avvicinarsi di più al fuoco alla donna che faceva la polenta (menare la polenta). La soglia non era proprio a contatto con le braci vive, poiché il fuoco vi si sviluppava un poco più in là, sull’arola. Era formata da mattoni posti a coltello, solitamente del tipo refrattario al calore. Se la soglia era a lungo a contatto con la viva fiamma, per quanto di buon spessore fosse, alla fine si spaccava in due parti. Forse il termine “arola” deriva da “aiuola”, piccola area.



Sull’arola calda, liberata dalle ceneri e ben pulita con un panno bagnato, veniva posto a cuocersi lo “
schizzotto”, che era la frugale focaccia di farina bianca impastata solo con acqua e sale. Sulla parte interna veniva posta, di fronte, una specchiatura in pietra con un’intaccatura, dove si appoggiava il recipiente di rame (ramina, caliera) per fare la polenta. Le spalle del camino erano in mattoni, ma potevano essere anche in bella pietra lavorata. La cappa solitamente era retta da una grossa trave di legno. Talora la soglia era notevolmente ampia e sopra di essa poteva prendere posto una seggiolina dove si sedeva qualche volta il più infreddolito. Il vecchio prendeva posto nel suo “caregon”, robusta sedia di legno e paglia, più alta del normale e munita di braccioli. La canna fumaria era solitamente esterna al muro, in modo che il fogolare, prendesse meno spazio. Allargandosi essa alla base a mò di bottiglia ne derivava la particolare forma all’esterno dei caminetti. La canna era alta, ed era buona norma per il tiraggio che terminasse almeno sopra il colmo del tetto. Vari e alcuni molto belli erano i comignoli dei caminetti, costruiti in modo che il fumo potesse da ogni lato uscire liberamente senza che improvvisi colpi di vento lo riportasse indietro. Le stufe non si usavano se non raramente, mai comunque nelle case povere. Per riscaldare le mani e i piedi infreddoliti, si poteva usare il braciere che era fatto in rame, anche ben lavorato, e prendeva il nome di “scaldino”. Si chiamava invece “fogara” il braciere che, posto dentro la “munega”, riscaldava il letto ed era riservato solitamente per i bambini e per i vecchi.

Fogàra e munega
Si accedeva al primo piano mediante scala di legno. Il primo piano era occupato dalle stanze da letto che erano tra loro passanti, senza corridoio. Se la casa era discretamente grande, nella parte posteriore occupava posto il
granaio e, a volte, anche il fienile (tesa). Il solaio era costituito da travi di legno di castagno con interassi intorno ai trenta centimetri sui quali era steso un buon tavolato, a volte a doppia trama, di legno di pioppo (albara). Le finestre erano di varia forma, secondo il piano e il tipo di vani sui quali si aprivano. Quasi sempre di piccola dimensione. Qualche volta all’esterno erano inquadrate da cornice in pietra trachitica.

Casa rurale a Castelnuovo
Le finestre delle stalle erano ancora più piccole ed erano talora costruite ad arco o a lunetta. Erano per lo più munite di inferriate per proteggere la stalla dall’ingresso furtivo dei ladri. Anche gli scuri (
balconi) potevano essere di varia fattura: a due ante quelli dei vani abitati dall’uomo, a una sola anta, talvolta con i cardini in alto, quelli delle stalle. Il legno degli scuri era in castagno o in pioppo. 

Vecchia casa a Lovertino












Attraverso questo viaggio che ci ha portato a scoprire com'era, una volta, il vivere contadino, terminerei col darvi un consiglio: quando ci avviciniamo a queste “memorie del passato”, fermiamoci a osservarle, curiosi di scoprirne i più intimi segreti, corriamo con la fantasia immaginando come poteva essere la vita all’interno di esse; perché, come abbiamo visto, niente veniva lasciato al caso, tutto aveva un senso, una logica. Ed è per questo che, ancora oggi, possiamo toccare con mano e vedere con i nostri occhi, questi inestimabili tesori che la gente di allora ci ha lasciato, affinché potessimo anche noi renderci conto, di ciò che voleva dire “amare la propria terra”. 

Testo liberamente tratto dal volume "L'analisi del paesaggio" di Loris Fontana


* Vedi anche:
 www.euganeamente.it/le-sorgenti-dei-colli-euganei



LA CASA RURALE NEI COLLI EUGANEI


Lovertino

Arquà Petrarca

Monticelli

Fontanafredda

Sentiero "Ferro di Cavallo" - Battaglia Terme







Particolare delle mura esterne di una casa rurale - Fontanafredda


Particolare balconi e comignolo - Fontanafredda


UTENSILI E ATTREZZATURE






Pala per frumento e cereali - Setaccio per granturco


Interno di una casa contadina fine '800

            Setaccio e Pala 




   







“In campagna, dopo una giornata di lavoro, gli uomini alzavano il bicchiere di vino all’altezza del viso, lo osservavano, gli facevano prendere luce prima di berlo con cautela. Gli alberi centenari seguivano il loro destino secolo dopo secolo e una tale lentezza rasentava l’eternità.”   (P. Sansot)


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