Colori d'autunno

Colori d'autunno
“ Storie che vanno via veloci disperdendosi al vento come fili di fumo. Il fumo è testimone di un fuoco. La legna finisce, il fuoco si spegne. Rimane l’odore del fumo, che è ricordo. Del fuoco resta la cenere, che è memoria. Rovistando tra la cenere si pensa al fuoco che fu. Ricordare fa bene, è un buon allenamento per resistere e tirare avanti.” (Mauro Corona)

venerdì 5 agosto 2016

Racconti euganei da leggere sempre e... ovunque!





L’ESILE ALBERO

Era un frizzante sabato mattina di fine ottobre. La giornata si presentava bella e piacevole, con un cielo azzurro tenue attraversato da bianche nubi che giocavano a rincorrersi. I tiepidi raggi del sole, accompagnavano un’aria fresca e pulita che dava sollievo allo spirito. Stavo scendendo con la macchina in direzione Teolo, dopo un’ appagante escursione sul Monte Grande. Negli occhi avevo ancora impresso le fiammeggianti tonalità di un incantevole autunno che vestiva di affascinante bellezza una natura che per tutto l’itinerario non smise di regalarmi momenti di autentica emozione. Continuando a scendere piacevolmente lungo i tornanti che mi riportavano a Villa, intravidi, tra due caseggiati, uno scorcio di paesaggio che attirò la mia attenzione. Fu un attimo, un flash, un’immagine appena sfiorata con lo sguardo, ma tanto bastò perché decidessi di fermarmi: il mio desiderio era di conoscere la sua reale bellezza e magari fotografarla. Cercai in qualche modo di parcheggiare la macchina, trovando non poche difficoltà visto la precaria posizione di discesa. Per fortuna, proprio in quel momento, si liberò un posto così potei sostare tranquillamente. Ero a pochi metri da dove iniziava la vallata che, in un susseguirsi di morbidi saliscendi, s’incontrava con le frastagliate pareti del Pendice. Con la macchina fotografica a tracolla, iniziai a risalire la strada per qualche metro fino a raggiungere alcune abitazioni poste sotto il livello della strada. In fianco a una di queste, vi era una stradina sterrata che inizialmente credevo fosse un sentiero. Due alberi di melograno mi davano il benvenuto, mostrando con orgoglio i rossi frutti. Percorsi incuriosito lo stretto budello di terra che s’inoltrava dritto tra la vegetazione. Camminando, respiravo come fosse un balsamo medicamentoso, l'humus del sottobosco e ascoltavo il leggero e ritmato scricchiolio delle foglie secche che si sgretolavano al mio passare. Il sole filtrava la sua luce tra i rami degli alberi creando magiche raggiere che andavano a lambire il terreno. Mi sentivo felice, perfettamente a mio agio in un ambiente che mi trasmetteva forza ed energia. Affrettai il passo ma, con il passare dei minuti, fui preso da un’inconscia eccitazione che pian piano trasformò le mie certezze in dubbi: stavo veramente percorrendo un sentiero? Non conoscevo bene quella zona e per di più, man mano che andavo avanti, la vegetazione si faceva sempre più selvaggia e intricata. Più che un sentiero, sembrava un vecchio tratturo in disuso e poco frequentato. Dove mi avrebbe portato? Valeva la pena continuare o forse, visto anche il tempo incerto, avrei fatto meglio a tornare indietro? Smisi di pormi altre domande e proseguii. Ormai ero consapevole di trovarmi dentro a un'avventura e di doverla vivere fino in fondo. Quel tratto di natura appena scoperto mi ronzava con insistenza nella testa, diventando a questo punto un chiodo fisso, una meta da raggiungere a tutti i costi. Alle undici e mezzo un cupo grigiore cominciò a oscurare il paesaggio, scolorendo all’improvviso tutto quello che fin prima era un paradiso di colori. Temetti il peggio, anche perché ero sprovvisto di tutto in caso di pioggia. Rischiai e andai avanti. Dopo aver passato una vegetazione di castagneti e roverella, notai che la luce si faceva sempre più viva e presente. La vegetazione pian piano cominciava a diradarsi, miscelandosi ai pochi spazi d’azzurro rimasti. Vedendo la meta vicina, tirai un sospiro di sollievo. Attraversai ancora un breve tratto di saliscendi, finché mi ritrovai nei pressi di una selletta erbosa ricoperta da un verde talmente invitante, che faceva venir voglia di togliersi via calzini e scarponi e camminarvici sopra a piedi nudi. Feci ancora qualche passo ed ecco aprirsi un fantastico panorama sulla conca di Teolo, sul Pendice e ancora più il là sul Venda, il Vendevolo e il Baiamonte. Abbandonai lo sguardo in quella tavolozza di colori e sfumature che scivolavano giù per la valle, macchiando d’autunno la pianura. Incorniciavano case, lambivano boschi, prati, coltivi, mentre la tenue luce che si era venuta a creare, velava di magia il paesaggio. A un certo punto, come attratto da un magnete, mi girai e … click! Ecco l’immagine che desideravo vedere! Ecco l’inquadratura tanto agognata! Stava proprio lì, davanti ai miei occhi, nitida e reale. Nei pressi di una collinetta si ergeva un alberello, ormai spoglio. Le sue forme flessibili e severe risaltavano appieno sullo sfondo grigio scuro dei colli. Era l’unico, non ve n’erano altri nelle vicinanze. Sporgeva in avanti come se cercasse di rubare al cielo un ultimo respiro. Il tronco, flebile e smunto, sosteneva rami dinoccolati e secchi le cui cime contorte, sembrava volessero unirsi in un abbraccio. Qualche sparuta foglia dava l’impressione di non volersi staccare da chi le aveva donato forma e colore. Il muto trascorrere del tempo, stava ponendo fine al loro amore. L’insieme mi apparve subito triste e malinconico. Nacque in me un senso di solitudine che m’integrò perfettamente a quel momento. Forse in un ambito diverso, in una di quelle giornate miti e assolate che mettono allegria, quella veduta mi sarebbe apparsa scontata e insignificante; ma in quell’atmosfera così placida e misteriosa, accarezzata da una lunare bellezza, tutto mi sembrò surreale e magico. Presi con trepidazione la macchina fotografica. Avevo timore che quell’istante mi sfuggisse, scomparisse nel nulla e allora cominciai a scattare, cambiando inquadrature e tempi d’esposizione. A ogni scatto guardavo sul piccolo monitor, se l’insieme mi convinceva, se la luce esistente creava la giusta atmosfera, se i chiaro-scuri che ne uscivano, valorizzavano del tutto quell’esile albero diventato, all’improvviso, centro assoluto della mia ispirazione. Volevo realizzare un’immagine che si avvicinasse il più possibile a ciò che avevo in mente e che, una volta sviluppata, apparisse come in un “quadro sublime” dove gli odori e i colori, potessero andare di pari passo alle emozioni e alle sensazioni che in quel momento stavo provando. Ero così assorto e concentrato nelle mie inquadrature, da non rendermi conto dell’assoluto silenzio che mi circondava. La muta coperta dell’autunno, avvolgeva su di sé ogni suono, ogni sussulto. Distolsi per un attimo la mia attenzione su ciò che stavo facendo e mi guardai intorno. Nessuna macchina, nessun vociare di gente, non un cane ad abbaiare. Niente. Solo il respiro dell’aria che accompagnava il mio. Restai immobile ad ascoltare quella sinfonia di pace, a inalare fino in fondo quei profumi di terra umida, di foglie marce, di resina, di legna bruciata. Erano odori sparsi nell’aria che giungevano a me sotto forma di delicate essenze: inebrianti sensazioni che m’inoltravano nelle silenziose profondità dell’anima. Un alito di vento mi accarezzò il volto; un altro invece, mi portò l’eco di solenni campane che scandivano mezzogiorno. In una breve carrellata controllai sul monitor della reflex gli scatti ottenuti, ritenendomi soddisfatto del risultato raggiunto. Guardai un’ultima volta quell’esile albero, promettendomi di ritornare ai primi tepori della primavera, quando avrebbe nuovamente indossato i colori della vita. Ripresi la via del ritorno pensando a testa bassa. Il cielo si annuvolò ancora di più, diventando all’improvviso minaccioso. Accelerai il passo cercando di uscire in fretta dalla boscaglia e arrivare sicuro alla macchina. Anche il vento alzò la sua voce, aumentando di colpo l’ondeggiare degli alberi e le inerti foglie, staccandosi dai rami, si lasciavano andare a un'ariosa danza. Era bello vederle volteggiare, piroettare, rincorrersi, inghiottite da improvvise spirali che, beffarde, si prendevano gioco di loro spostandole qua e là in un miscuglio di caldi colori, che ravvivavano un ambiente fino a quel momento uggioso e malinconico. Stavo avvicinandomi alla strada, quando un’ondata di profumi invitanti mi fece trasalire e mi riempì di buono le narici. Erano gli effluvi del pranzo che provenivano dalle case vicine: un “tourbillon” accattivante e gioviale di odori e sapori che si confondevano in un alone di vera piacevolezza. Sbucai finalmente in strada e mi accorsi che, vicino al guardrail, dove prima sostava una fila di macchine, ora vi era solo la mia. Vista l’ora, decisi di scattare ancora qualche foto: volevo catturare gli ultimi rivoli d’emozione che quella giornata mi stava offrendo. Mi fermai nei pressi dell’abitazione, dove troneggiavano i due melograni che, all’andata, mi diedero il benvenuto. Era una casa non molto grande, un po’ trasandata, dalle pareti color mattone chiaro. Nella facciata principale, ai lati della porta d’entrata, dei balconi malridotti, di un verde che non saprei descrivere, socchiudevano appena i vetri delle finestre. Ogni tanto, qualche spirale di vento si divertiva a farli dondolare avanti e indietro, quasi volesse giocarci. Il fine cigolio che si spargeva nell’aria, somigliava tanto al suono flebile di un lontano lamento, di un nascosto pianto. In un lato della casa, quello meno esposto, macchie di umidità invadevano l’intera parete dando al colore, una tonalità più scura. In qualche punto la tinta iniziava a scrostarsi, formando sottili lamelle arricciate che scoprivano la grigia nudità del muro. In parte alla casa, vi era un piccolo orticello, coltivato con parsimonia, il minimo indispensabile, e uno spiazzo erboso dove un paio di galline dal bel piumaggio grigio, passeggiavano impettite e fiere di sé come due comari. Mentre con la mia reflex provavo alcuni scatti, da dietro i vetri di una finestra, mi apparve un’anziana signora che, con sguardo accigliato e sospettoso, seguiva preoccupata i miei movimenti. Con un cenno del capo e un sorriso la rassicurai, tentando di farle capire che ero lì per altri motivi. L’anziana donna, imperterrita, continuava a seguirmi con occhi sempre più sospettosi. Allora, abbassai “ l’oggetto inquietante” e mi allontanai. La signora, conscia della mia resa, rilassò il suo volto, lasciandosi andare a un’espressione più serena e tranquilla. Poi la vidi scostarsi dal vetro e sparire lentamente dietro la tendina della finestra. Fu un’apparizione sfuggevole, improvvisa, ma che mi rimase impressa negli occhi. In quei brevi istanti, riuscii a leggere nel suo volto seminascosto dalla tendina, qualcosa che mi restò dentro. Le sue movenze, il suo incedere lento e misurato, furono sensazioni che mi trasmisero una sorta di malinconica esistenza, di perpetua solitudine. Qualche mese più tardi, come in un giocoso rincorrersi di circostanze, il vento del destino soffiò sulle nostre strade, facendoci nuovamente incontrare. Un incontro intimo e diretto in cui venne fuori tutta la sua solare purezza di donna semplice e genuina. Ripensando a quanto mi era accaduto, discesi senza fretta la strada che mi portava alla macchina. Ai margini del marciapiede, si erano formati mucchietti di foglie multicolori che andavano a sovrapporsi ad altre che pioggia e fango avevano ormai scolorito. Mosse poi dal vento, le foglie appena cadute ricominciavano a cantare, librandosi nell’aria, posandosi, come ali di farfalla, su prati, viottoli e giardini, imbrattandoli in una disordinata policromia autunnale. Mi levai dal collo la macchina fotografica, la rimisi nella custodia e la depositai sul sedile posteriore dell’auto. Ero pronto a partire, ma prima mi voltai ancora una volta a guardare quelle due case e quello scorcio che stava nel mezzo, così unico e solitario. Il tempo non migliorava, anzi. Si era formata una leggera foschia che velava, come un vetro opalescente, i colli e la pianura. Scivolando lungo la strada che mi portava verso casa, con il finestrino semiaperto cercavo di carpire nell’aria i profumi dell’autunno, prima che l’inverno, con il suo magico candore, ricoprisse ogni forma di vita per un nuovo, lungo letargo. 






L’INCONTRO 

E’ capitato, durante il percorso della mia vita, di imbattermi in situazioni strane, in storie imprevedibili, a volte paradossali, completamente avulse dalla realtà che fino a quel momento stavo vivendo. Senza accorgermene, venivo catapultato in una dimensione nuova, con indosso un ruolo cui sentivo di non appartenere; come se davanti a me ci fosse un muro invalicabile di diffidenza e scetticismo, oltre il quale non riuscivo a porre le mie scelte, i miei pensieri. Meglio, quindi, starsene nella propria agiatezza, rintanati al proprio posto, senza il rischio di andare incontro a una realtà disagevole e ingombrante, con il timore di non trovare espressioni o atteggiamenti idonei per far fronte a tale circostanza. Mi rendevo conto, insomma, di vivere una situazione abulica, opprimente. Il desiderio di voltar le spalle e fuggire, diventava sempre più un’ipotesi concreta. Poi, come sospinto da una forza estranea, misteriosa, nacquero in me nuove sensazioni che m’incoraggiarono a volare oltre quel muro che fino a prima trovavo insormontabile. Finalmente andavo incontro alla mia libertà. Avrei potuto guardarla in faccia, assaporarla, godermela serenamente, senza paure, cercando di scoprirne ogni angolo, ogni punto nascosto. Una libertà che volevo sentire finalmente mia, perché solo così avrei potuto vivere la mia vita fino in fondo. 

Domenica mattina. La giornata si presentava limpida e fresca, illuminata dalla luce intensa e pulita di un sole sgombro da nubi. Sebbene fossimo ai primi di novembre, l’autunno non voleva separarsi dai suoi colori, continuando a vestire la natura con la sua coperta tessuta di calde tonalità. Mi trovavo, dopo appena due settimane dall’escursione al Monte Grande, a ripercorrere i tornanti di Teolo, questa volta di ritorno da una piacevole camminata lungo i sentieri boschivi del Monte della Madonna. Mentre percorrevo la strada che mi portava a Villa, notai, ai lati della corsia, un’anziana donna e un ragazzino che camminavano, una dietro l’altro, rasente un muretto di contenimento che costeggiava la corsia stessa. Li passai, sfiorandoli con lo sguardo, immaginando il rischio cui andavano incontro nel percorrere una strada così stretta e frequentata, sprovvista per di più di una segnaletica pedonale. Continuai la guida fluida e tranquilla, lasciandomi alle spalle la semplice considerazione. Fuori, intanto, spirali di vento seguitavano a mulinare aria in un continuo andirivieni di gelidi soffi. Aprii il finestrino. Volevo godermi quell’aria e respirarla. Cristalline fragranze m’inondarono il respiro di buono. Immerso in una varietà di colori che mi si appiccicava addosso come in un festoso abbraccio, guardai trasognato quel capolavoro naturale che il vetro del cruscotto sembrava incorniciare. Tutto era armonia, stupore, leggerezza, poesia. Stavo per raggiungere, nel frattempo, il luogo dove, quindici giorni prima, il mio sguardo fu rapito dall’immagine sfuggente e misteriosa di uno scorcio di paesaggio dove l’esile forma di un albero, bastò per accendermi la fantasia. Improvvisamente, dal mio inconscio, sentii uscire una vocina che richiamò la mia attenzione. Mi strattonava, mi scuoteva, cercando in tutti i modi di svegliarmi da quel mistico torpore che mi avvolgeva: era come se mi mandasse un segnale, un avvertimento. Pensai bene di darle ascolto. Almeno per una volta, giusto o sbagliato che fosse. Troppo spesso, infatti, per pigrizia o per voluta indifferenza ebbi la presunzione di non prenderla in considerazione, ignorandone l’“imput” che lei stessa mi trasmetteva. Conscio, poi, dell’errore, alla fine mi pentivo, ma ormai era tardi. La vendetta era consumata. Lasciai, allora, che la “fraterna vocina” mi prendesse la mano, per condurmi in un viaggio sconosciuto, che desideravo vivere a tutti i costi. Decisi così di ripercorrere quel sentiero. Giunsi a destinazione che erano le undici. Scesi dall’auto e rividi, ancora una volta, quel frammento di poesia che continuava a stare lì, incastonato tra quelle mura, come diamante in un solitario. L’alberello, invece, resisteva stoicamente alle intemperanze del vento che lo ingobbiva sempre di più. Presi con me lo zaino e la macchina fotografica, pensando all’eventualità di scattare nuove foto: era la giornata ideale, ben diversa da quella piatta e minacciosa vissuta due settimane prima; sicuramente avrei trovato un’altra atmosfera, altri colori, altre emozioni. Risalii il tratto d’asfalto che mi separava dal punto esatto da dove aveva inizio la stradina sterrata. Giunsi in prossimità della casa color mattone chiaro con i due melograni che mostravano, ancora rigogliosi, i coriacei frutti. Prima però di iniziare il sentiero, m’incuriosì l’idea di avvicinarmi a una delle finestre, sperando di trovare ancora il volto vigile dell’anziana signora. Guardai attraverso i vetri, ma non vidi nessuno, né percepii alcun rumore. Sembrava proprio che all’interno non ci fosse anima viva. Forse sarà andata alla messa, pensai, o forse sarà da qualche parente a consumare il pranzo della domenica. Allora mi spostai più in là, sul lato meno esposto della casa, con la speranza di trovarla in orto a “rancuràre[1]” verdura o a dar da mangiare alle poche galline che aveva, ma neanche lì la trovai. Tornai indietro, questa volta deciso a iniziare il sentiero. Ci saranno altre occasioni per incontrarla, mi dissi. Stavo mettendomi in cammino, quando sentii alle spalle una voce appena percepibile, esclamare: ” Ehi, giovinòto!”. Inizialmente non ci feci caso. Poi il tono aumentò facendosi più fermo e deciso: “ Siòr, pòlo fermàrse?”. A quel punto intuii che ero io l’obiettivo. Mi voltai, cercando con lo sguardo quella voce che sentivo provenire dalla strada. In lontananza, vidi una signora, vestita di scuro, venirmi incontro con passo lento e dinoccolato che cercava, con ampi cenni del braccio, di attirare la mia attenzione. Si trattava dell’anziana donna intravista poco prima, sulla grigia discesa di Teolo. Ad accompagnarla c’era ancora il ragazzino, un tipetto singolare, tutta pelle e ossa con i capelli dritti in testa, neri come l’inchiostro, che improvvisamente, come risucchiato da una forza magnetica, si staccò da lei dileguandosi giù per un vicolo secondario fino a scomparire dietro a una siepe. Chissà cosa spinse quel furetto, a una fuga così risoluta e sbrigativa. Mentre la donna si avvicinava, ebbi modo di mettere a fuoco la sua figura che pian piano prendeva forma, somigliando sempre più a una persona già vista. I bianchi capelli scompigliati dal vento, sembravano fili di seta che, con i riflessi del sole, assumevano il candore della neve, il volto era solcato da sottili rughe che parevano disegnate a matita e davano all’espressione un tono di fermezza e severità, da incutermi un inconscio senso di riguardo. Portava un lungo vestito scuro, un po’ a fantasia, una traversa bianca con bordi azzurri allacciata in vita e uno scialle di lana traforato, che le copriva le spalle. Sul fianco destro, sosteneva un cesto di vimini pieno di biancheria pulita, che reggeva aiutandosi con il braccio. Quando fu a pochi metri, capii subito che si trattava dell’anziana donna che tanto avevo cercato. Piacevolmente sorpreso dell’incontro, a quel punto m’incuriosì conoscerla. Lei, invece, non sembrò dello stesso parere. Lo capii dal tono di voce, quasi minaccioso, con il quale m’invitava a esporle le ragioni della mia intrusione. Con calma, cercai inizialmente di farle venire alla mente i particolari del nostro precedente incontro – cosa che continuava a non ricordare – ma soprattutto volevo spiegarle, ancora una volta, che sbagliava a essere così diffidente nei miei confronti. In fondo non stavo facendo nulla di male, ero distante dalla sua abitazione e all’inizio del sentiero, non vi era nessuna indicazione o sbarramento che ne vietasse l’accesso. Proseguì imperterrita i suoi ragionamenti, ripetendomi più volte che quel sentiero non portava da nessuna parte e che vedere gente gironzolare intorno casa, non le piaceva affatto. Mentre mi parlava, percepii un sottile velo di apprensione che la sua voce mal nascondeva. A quel punto, non volli accentuare ancora di più il suo disagio e, scusandomi ancora per averla intimorita, la salutai. Ci fu un gran silenzio, nessuno di noi due aggiunse più nulla e tutto sembrò quietarsi. D’improvviso, un lampo scosse i pensieri dell’anziana donna. Nella sua mente, il ricordo di quel sabato mattina le apparve in tutta la sua chiarezza. Mi richiamò, e in un susseguirsi di rapidi flash, mi descrisse i vari episodi che caratterizzarono quella singolare giornata. La coperta di gelo che fino a pochi istanti prima ci avvolgeva, ora si stava pian piano sciogliendo. Quando tutto fu chiarito, le chiesi se era possibile conoscere il suo nome. In un dialetto stretto, da tenace e arcigna donna di campagna, disse di chiamarsi Rosa, anche se la gente del posto continuava a variarlo usando vezzeggiativi del tipo “ina” (Rosina) o “etta” (Rosetta). Questa, era una cosa che mal sopportava e che la faceva sentire a disagio; lo intuii dall’espressione con cui me ne parlava. La sua era diventata ormai una questione di principio, una fissazione quasi maniacale. Quelle variazioni in “ina” o “etta”, non facevano altro che distorcere la bellezza del nome e la leggiadria del suo significato. Sosteneva, infatti, che il nome di una persona, andasse rispettato, ammirato, a volte anche invidiato. In fin dei conti è ciò che ci rappresenta, ci identifica, ci unisce; è il valore aggiunto alla nostra personalità, il vestito buono da indossare per l’intera vita: perché, allora, alterarne la primitiva bellezza? Un lungo respiro, quasi liberatorio, uscì improvviso dalle sue labbra. Dalla tasca del grembiule, tirò fuori un fazzoletto per asciugarsi il naso diventato paonazzo per il freddo. Poi, senza che aggiungessi parola, mi confessò di essere rimasta da poco vedova e di avere due figli, un maschio e una femmina, felicemente sposati ma, purtroppo, molto distanti da lei. Mentre diceva questo, il suo sguardo assunse un’aria malinconica. “I vièn catàrme cussì pòco”, disse attorcigliando nervosamente tra le mani il fazzoletto, “ che sa gò bisogno de calcòssa, a fasso ora voltar l’ocio dièse volte!” (Vengono a trovarmi così poco, che se ho bisogno di qualcosa, faccio tempo a morire dieci volte). A questa frase, mi venne da sorridere, ma nel volto di Rosa notai la sofferenza della solitudine e dell’abbandono. Rosa viveva da sola, accompagnata dai suoi ricordi. Da sempre aveva sperato che almeno uno dei due figli, vedendola sfiorire, potesse darle una mano e starle vicino, confortandola, infondendole coraggio e nuova linfa nei momenti in cui si sentiva sola. Evidentemente, il destino le riservava altre strade. La cosa certa era che Rosa doveva ancora combattere, con se stessa e con la vita. Le restava la sua terra. Quella terra che, fin da ragazzina, imparò a coltivare e a rendere fertile ma che non le permise, una volta cresciuta, di vivere pienamente la sua libertà di giovane donna, portandola a sacrificare lo svago e l’amore. Quella terra che tanto le aveva tolto, ma che sentiva ancora di amare più della sua vita. Ascoltai Rosa in silenzio, lo stesso che impregnava l’aria in quel momento. Dopo un po’ le chiesi, vista la sua vena confidenziale, se non era il caso di trovare un posto in cui sedersi per continuare tranquillamente la conversazione. Senza dire niente, prese da terra il cesto di biancheria, si diresse verso l’entrata di casa e lo posò accanto alla parete, in maniera che stesse riparato. Poi, con un cenno della mano, m’invitò a seguirla. Passammo di fianco casa e scendemmo lungo una stradina ghiaiosa fiancheggiata da alte siepi che nascondevano una serie di abitazioni. Percorsi alcuni metri, sbucammo presso un cortile che si apriva su un’ampia piazza, attorniata dai vividi colori del platano e del frassino che ne adombravano in parte la superficie. Ai bordi, un trittico di panchine e tavolini in pietra ammuffiti dal tempo e dalle intemperie, creavano una specie di semicerchio che ne seguiva la forma circolare. A questo punto Rosa si fermò, indicandomi con il dito la panchina su cui era solita sedersi. “ Quà d’istà ea zente vien par stare al fresco e ciacolàre de quèlo che capita.” (Qui, d’estate, la gente viene per rinfrescarsi e chiacchierare di quello che succede), disse guardandosi intorno come se fosse lei a gestire quello spazio. Prima di sederci, spostammo con la mano alcune foglie secche che coprivano la seduta della panchina, mentre quelle a terra continuavano a scrocchiare allegre sotto i nostri piedi. Aiutai Rosa ad accomodarsi, facendo attenzione ché non scivolasse. Poi mi sedetti anch’io appoggiandomi a fianco, lo zainetto e la macchina fotografica. Rivolsi d’istinto lo sguardo al cielo. Non so esattamente il perché, ma lo feci. Forse era un modo per attingere un’idea o un’ispirazione adatta alla circostanza. Era di un azzurro intenso, illimitato, sembrava un immenso oceano. Fissai quel colore fino a riempirmi gli occhi. Mi trasmetteva gioia, mi rilassava, mi faceva stare bene. Gli alberi, intanto, continuavano a essere spazzolati dal giocoso soffiare del vento d’autunno che si divertiva come un matto a tirar giù le foglie dai rami, facendole cadere a terra come tante farfalle colorate. Per le vie e nelle vicine case regnava il silenzio del dopo pranzo. Un silenzio che comunque trovai avvolgente, sacrale, che riempiva di pace quel momento. Un tocco di campana, proveniente dalla vicina vallata, mise fine a quell’incanto. Balzando di scatto dalla panchina, guardai l’orologio: segnava l’una e trenta. Il tempo era volato via senza che me ne accorgessi ed ero in forte ritardo per il pranzo. Cercai di congedarmi in fretta da Rosa, scusandomi per il breve tempo dedicatole ma, soprattutto, pensando alle imprecazioni che avrei ricevuto da mia moglie al mio ritorno. Lei, di contro, appoggiandomi una mano sulla spalla, mi fermò, pregandomi di restare. Fu una richiesta che mi spiazzò, lasciandomi senza una risposta. Incespicando sulle parole, cercai di farle capire che avevo una famiglia che mi stava aspettando e che anche lei, forse, avrebbe dovuto pensare al suo appetito. Con la schiettezza che la distingueva, mi rispose che già si sentiva sazia avendo fatto, durante la mattinata, un’abbondante colazione da sua nipote. I morsi della fame mi stavano attorcigliando lo stomaco. Non sapevo cosa dire né come comportarmi. Mi resi conto di trovarmi di fronte a una situazione paradossale, oppresso da un’incertezza che mi teneva in bilico. Quella stessa incertezza che ogni giorno m’intralcia la vita rendendomela insicura e piena di dubbi. Guardai Rosa che se ne stava seduta lì, sull’umida panchina di pietra, in attesa di una mia risposta che tardava ad arrivare ma che alla fine, trovai. Lasciai le mie apprensioni disperdersi nel vento, insieme al profumo di foglie sfatte che l’aria sollevava da terra, e con un cenno del capo feci segno a Rosa che sarei rimasto. Chiamai mia moglie informandola di quanto stava accadendo. La pregai di non preoccuparsi e di aspettare tranquilla il mio ritorno. Completate con buon esito le formalità coniugali, presi lo zaino per vedere cos’era avanzato dalla camminata svolta in mattinata. Lo aprii trovandovi ancora due pacchetti di crackers, dell’acqua e una barretta di cioccolato avvolta nell’alluminio. Tirai fuori il “mesto pranzo” offrendogliene anche a Rosa che, nonostante il suo “essere sazia”, accettò volentieri. Mangiammo per un po’in silenzio, cullati dal lento andar dei pensieri. Centellinando ogni morso, rimanevo con lo sguardo incantato a fissare un punto davanti a me, senza riuscire a metterlo a fuoco, come se andassi in cerca di una risposta che mi svelasse il perché di quell’istante. Fu Rosa a rompere l’armonioso silenzio, parlandomi ancora una volta della sua gioventù e della sua terra. Col passare del tempo il nostro dialogo divenne più scorrevole e sincero. Iniziammo a darci del tu, sciogliendo così quel sottile velo di diffidenza che poco prima ci legava. Ascoltavo volentieri i racconti di Rosa, mi piaceva seguirne le sfumature, gli aneddoti, viaggiare con lei a ritroso nel tempo e, con la fantasia, immaginarmi di essere lì, accanto a lei e vivere quella vita. Alle luci del primo pomeriggio, un po’ alla volta il cortile cominciò a popolarsi di vispi ragazzini che, ancora saturi del pranzo appena terminato, correvano avanti e indietro prendendo a calci un pallone che tutti volevano far proprio. Ne seguirono grida e incitamenti che, alla lunga, infastidirono i nervi e le orecchie di Rosa. Spazientita dal continuo schiamazzare, si alzò dalla panchina e scrollandosi le briciole di dosso m’invitò ad abbandonare quel luogo diventato ormai una ridda di voci concitate e caotiche che mal si addiceva alla sua mentalità di donna all’antica. “Còssa sarà mai stò zògo del calcio!” (Che cosa sarà mai questo gioco del calcio!) – disse rifacendosi il nodo al grembiule. E dopo una breve pausa, aggiunse: “Ma nò i se rende conto che vànti ‘ndar fòra a zugàre, i gà da fare e lessiòn!” (Ma non si rendono conto che prima di uscire a giocare, devono fare i compiti!). In verità, quei ragazzini facevano un tal frastuono, da sembrare il doppio di quelli che in realtà erano: era davvero impossibile parlare normalmente senza dover urlare. Così anch’io mi alzai, dando un ultimo sguardo a quel gruppetto di scalmanati che continuavano indomiti nel loro gioco. Nell’aria tagliente del pomeriggio, guardavo quei giovani volti arrossirsi come mele mature e il loro fiato tramutarsi in nuvole bianche che si sperdevano leggere come soffi di borotalco, svanendo silenziose al continuo sospirare del vento. Raggiunsi Rosa, che nel frattempo mi aveva preceduto di qualche metro, e con lei ripresi la strada del ritorno. Durante il tragitto, mi ritornò alla mente una domanda che da qualche giorno mi ronzava in testa, una di quelle che s’insinua furtiva nei pensieri di tutti i giorni e che non ti abbandona se prima non ne trovi la soluzione. Una domanda che già quindici giorni prima avrei voluto farle, ma chissà per quale motivo non ebbi la forza di pronunciare. Forse perché mi mancava il coraggio o avevo il timore di una sua risposta sgarbata, insofferente o forse perché non volevo andare incontro a un suo silenzio. Un silenzio che mi avrebbe messo in testa altri dubbi, facendomi immaginare tutto e niente. Era questo il mio timore. In ogni caso non l’avrei biasimata, anzi, l’avrei capita perfettamente. Comunque andasse, era un interrogativo cui dovevo dare assolutamente una risposta. Arrivammo davanti casa. Il cesto della biancheria era ancora al suo posto, adagiato sul selciato, vicino alla porta d’ingresso. Qualcuno, in nostra assenza, lo aveva coperto con un telo bianco per proteggerlo dalle foglie e dal vento che ogni tanto imperversava con improvvisi sbuffi. Rosa si chinò e lo tolse. Mi disse che a mettere quel telo era stata una sua vicina di casa che di tanto in tanto passava a trovarla per darle un saluto e controllare che tutto andasse bene. Intanto che lei mi parlava, io non riuscivo a staccare gli occhi da quel cumulo di bianco. Il sole del pomeriggio lo illuminava di luce calda e profumata rendendo il suo biancore quasi accecante; l’aria, invece, ne disperdeva le delicate essenze che pian piano arrivavano a inondarmi il respiro. Tirate fuori dalla tasca della traversa le chiavi di casa, Rosa aprì in doppia mandata la porta d’entrata, spalancandola completamente, lasciandomi così intravedere parte dell’arredamento in perfetta sintonia con la sua personalità: austero ed essenziale. Poi, raccolto il cesto della biancheria, m’invitò a entrare per un caffè. Ringraziando, accettai. Appena varcai l’ingresso, fui subito rapito dagli odori perpetui del tempo imprigionati in quelle mura intrise di ricordi. Sapevano di legno vissuto, di muffa, di brace appena spenta; odori che il calore della stufa accesa accentuava, spargendone l’anima per tutta la casa. Li respirai profondamente, finché le narici ne furono sature. Mi guardai intorno, incuriosito. Mobili vecchi, quadri, oggetti di vario genere, immagini sacre, ogni cosa aveva il sapore antico del passato, il valore autentico di un tesoro che lei custodiva gelosamente tra quelle pareti di cemento. Una vecchia cassapanca di legno di noce collocata in un angolo dell’entrata, attirò la mia attenzione. Era impreziosita da un bel centrino che ne riempiva tutta la lunghezza e sopra, vi erano posati, in bella mostra, alcuni portafoto che incorniciavano immagini di famiglia che Rosa, con arguzia e precisione, aveva disposto con ordine quasi geometrico. Non li contai, ma a occhio e croce saranno stati una decina, tutti in diagonale, uno dietro l’altro, a distanza regolare e in rigoroso ordine decrescente. Prima di entrare in cucina, notai che sopra la porta era appeso, in posizione centrale, un bel crocefisso di legno di olivo intagliato a mano, come segno di devozione. Quando entrai, trovai Rosa intenta a preparare il caffè che poi, con cura, mise sulla piastra della stufa a legna. Nell’attesa che la bruna miscela gorgogliasse e spandesse il suo aroma, Rosa sfilò una sedia da sotto il tavolo e m’invitò a sedere. Era in formica verde salvia, con lo schienale un po’ sbeccato e lo scheletro in metallo che, in alcuni punti, presentava della ruggine. Dello stesso stile, erano anche il tavolo, la credenza e le altre tre sedie. Al centro del tavolo, risaltava una ciotola in vetro smerigliato riempita di frutta assortita tra cui spiccavano tre belle arance, il cui profumo invitava a mangiarle. In quella stanza immersa nella penombra, si era venuta a creare l’intima e silenziosa atmosfera di luoghi sacri, remoti, dove l’anima si purifica trovando nella confessione, la vera pace. Pensai che fosse giunto il momento di parlarle, di porle, finalmente, quella domanda che da settimane mi assillava; capire, in modo definitivo, quel nascosto segreto che tanto la tormentava. Rosa stava lì, anche lei seduta davanti a me, con l’espressione vaga di chi attende che sia l’altro a fare la prima mossa. Cercai allora di scuotermi e uscire dall’imbarazzante senso d’inquietudine che mi attanagliava e mi teneva inchiodato sul posto. Inspirai a lungo, espellendo lentamente l’aria dal mio petto, racimolai frammenti di coraggio e tenendo un tono di voce adeguato, le chiesi da dove provenisse quell’oscura apprensione che, agli occhi degli altri, la faceva sembrare distaccata, lontana; e quell’ostinata ritrosia, che riversava così pesantemente sulle persone e sulla vita. Seguì un breve silenzio che, in quell’istante, mi sembrò eterno. Fu il gorgoglio della moka a spezzare quell’eterea silenziosità interpostasi tra i nostri sguardi incerti, sospesi in un interrogativo cui non riuscivamo a staccarci. Rosa si alzò, prese la moka dalla stufa, versò il caffè sulla tazzina, tirò fuori dalla credenza lo zucchero e mise il tutto su un vassoio che appoggiò sul tavolo. Mi servii e con il cucchiaino, mescolai lentamente. Ne uscì un ritmato tintinnio, simile a un dolce suono di campanelle a festa, che rimbalzava allegro sulle pareti della cucina. Mentre sorseggiavo il caffè, scrutai gli occhi di Rosa, sempre attenti e insondabili, resi impermeabili dalla patina del tempo che lasciava scivolar via ogni tipo d’emozione. D’improvviso, le sue labbra accennarono un tenue sorriso, in un’espressione che sembrava nascondere qualcosa. Come una crisalide avvolta nel suo bozzolo, Rosa continuava a stare immersa nei suoi pensieri e a non dire niente. Alzatasi, poi, dalla sedia, si tolse lo scialle, lo posò sullo schienale e uscì dalla cucina dicendo: ”Spèta n’àtimo”. Si presentò poco dopo con una vecchia scatola di latta piuttosto consunta che posò sul tavolo con delicatezza come se, all’interno, vi fosse contenuta chissà quale reliquia. Era tutta decorata da immagini floreali su fondo rosa antico e sul coperchio sbordava una barretta ottonata che fungeva da apertura. Prima di aprirla, però, Rosa volle spiegarmene la provenienza e come ne entrò in possesso. Un tempo, quella scatola conteneva caramelle assortite, confezionate singolarmente, una a una, da una cartina colorata che ne faceva intuire il gusto. Gliela regalò sua madre, nel giorno del decimo compleanno, sfinita dalle continue richieste della figlia. Rosa, infatti, si accorse di quell’invitante confezione, una mattina, passando davanti alla vetrina della drogheria, dove ogni tanto sua madre si fermava a far compere. Era esposta in bella mostra, in mezzo a tante altre leccornie e ogni volta che la vedeva, i suoi occhi s’illuminavano di gioia. Da quel giorno, Rosa decise che doveva appartenerle a tutti i costi. E così fu. Ogni volta che scartava e assaporava quelle delizie ai gusti di frutta, d’anice, di miele e d’orzo, il suo palato si riempiva d’allegria; quella goduria gustativa, la coccolava, la faceva star bene. Una volta poi svuotata del contenuto, Rosa conservò quella scatola come un oggetto prezioso, facendone il suo scrigno dorato dove riporre i suoi segreti e i suoi ricordi. E, anno dopo anno, Rosa vi raccolse un’intera vita: un pacchetto di lettere, scritte in gioventù e mai spedite, raccolte in meticoloso ordine cronologico da un nastrino di raso blu, santini, anelli, chincaglierie, ritagli ingialliti di giornale e un involucro di plastica, dove all’interno vi erano dei petali di rosa seccati. In quel sacchettino scurito dalla muffa, oltre ai petali, si leggeva a stento un bigliettino che diceva: “Al mio grande Amore. Tuo per sempre. Giulio”. Era uno dei primi pensieri d’amore che ricevette da chi un giorno sarebbe diventato suo sposo. Ogni oggetto che Rosa estraeva da quello scrigno di latta, era un frammento di vita intriso di storie, aneddoti, curiosità che si rianimava attraverso i suoi racconti. Tutto aveva una data, un significato, come se quei ricordi non appartenessero al passato, ma fossero più che mai presenti nella sua memoria. Mi distolsi per un attimo da quella carrellata di ricordi, volgendo lo sguardo alla finestra. Attraverso i vetri, la luce calda del tardo pomeriggio, era morbidamente filtrata dalle tendine che ne attutivano la forza, tingendo di riflessi dorati il piano del tavolo e parte del muro, in una scenografia naturale che dava l’illusione di stare in un contesto teatrale. Capii allora, che quella scatola rappresentava per Rosa il suo mondo nascosto, l’ancora di salvezza per uscire da una realtà alla quale non sentiva più di appartenere, un salubre “passepartout” d’accesso alla vita, da usare quando la solitudine le sovrastava i pensieri e l’angoscia le mordeva l’anima. Ecco, dunque, i suoi sospetti, i suoi dubbi, il suo continuo indagare verso tutto e tutti. La luce del sole andava pian piano scomparendo. Avanzava la sera, ad allungare le sue ombre fino all’orizzonte. Mi alzai dalla sedia, facendo capire a Rosa che era venuto il momento di salutarci. Questa volta acconsentì, guardandomi teneramente. Le porsi la mano, ringraziandola per le belle ore trascorse insieme. Attraverso i suoi racconti, le mie domande trovarono, finalmente, una risposta. Ebbi modo di conoscerla in profondità, scoprendo quel lato nascosto che, agli occhi degli altri, la faceva apparire rude e scontrosa. In realtà non era così. Rosa si dimostrò, al contrario, una persona sensibile, attenta, ma soprattutto, autentica. Certamente, il tempo ne aveva cambiato l’aspetto, affievolito il vigore; il suo animo, però, era rimasto intatto, puro. Pensando a ciò, mi resi conto che anch’io stavo vivendo in modo diverso la mia vita. Ero riuscito, inconsapevolmente, a darle un significato, proiettandomi così in una dimensione nuova, sicuramente più realistica e gratificante rispetto a quella stereotipata e confusa che conducevo tutti i giorni. Ora, potevo dire di assaporarne tutto il suo valore. Prima di accompagnarmi all’uscita, Rosa ripose con cura tutti i suoi ricordi dentro la scatola, poi prese il coperchio e la chiuse, lasciandola lì, vicino alla ciotola di frutta. Uscimmo, e i profumi acri della sera ci sfiorarono il respiro di malinconia. Guardai l’orizzonte. Il cielo si era ritagliato una striscia di cobalto che faceva apparire quella parte d’azzurro ancora chiara, tersa, mentre tutt’intorno, le sagome dei colli diventavano via via sempre più scure e solitarie. Il sole era una palla infuocata che, lentamente, degradava il suo bagliore dietro la scura luce del crepuscolo, lasciando intatti i soffusi colori del tramonto. Rosa volle accompagnarmi ancora per qualche metro. Arrivammo così al punto dove, l’angusto sentiero, iniziava il suo percorso. Guardandomi, poi, con un’espressione incuriosita, mi chiese cosa stessi cercando di così importante lungo quel viottolo imboscato, dimenticato da Dio. “Un esile e solitario albero”, risposi. Era lì, solitario, in mezzo all’oscurità della pianura. Lo vedevo a stento, ma ne distinguevo ugualmente i contorni. La sua silhouette era inconfondibile. Sembrava la mano rattrappita di un vecchio, protesa verso l’alto, alla ricerca di un aiuto o di una risposta che qualcuno, lassù, avrebbe dovuto dargli. Il passare del tempo cancella, trasforma ogni cosa. Anche quella mano. Un tempo sana e piena di vita, ora non era altro che un intricato groviglio di rami secchi e aridi. Quando indicai a Rosa il minuto albero, scoppiò a ridere. Lei, che ogni giorno lo vedeva ciondolare alle gelide sferzate del vento, non lo considerava neppure, anzi, mi fece capire che un albero come quello lo avrebbe usato solo per far legna da buttare sul fuoco. Ancora una volta la spontaneità di Rosa affiorò dalle sue labbra come petali di un fiore al primo disgelo. Lasciai scivolar via la sottile provocazione e tenni dentro di me le emozioni e le molteplici percezioni che quell’alberello seppe trasmettermi. Abbracciai affettuosamente Rosa promettendogli che, se mi fossi trovato nuovamente dalle sue parti, sarei senz’altro passato a darle un saluto. Scesi il breve tratto che mi separava dall’auto, ripensando alla giornata trascorsa e agli appassionanti racconti di Rosa. Racconti di gente povera e orgogliosa, affidati al grembo materno della terra; raccolti dalla voce flebile del vento e poi sparsi, come chicchi di grano, nei fertili solchi di cuori sognanti. 

[1] Rancuràre = Raccogliere 







UNA GIORNATA PARTICOLARE

Un giorno lessi un bellissimo aforisma di Yogananda, un grande maestro spirituale indiano, che diceva: “Ogni volta che osservi un bel tramonto, pensa fra te e te: “E’ Dio che dipinge il cielo”. Anche a me è capitato, in più di un’occasione, di contemplare l’infinito splendore di maestosi tramonti, dai colori bellissimi, con sfumature che sfociavano in cromatismi incredibili tanto da sembrare dipinte nel cielo. Totalmente immerso in quell’atmosfera di calda serenità, di profonda pace, ammiravo incredulo l’evolversi di forme e striature dorate che dolcemente accarezzavano il cielo per espandersi poi, lentamente, tra le tonalità rosso cupo dell’orizzonte. Stavo di fronte a qualcosa di surreale, onirico, che mi allontanava da tutto e tutti. Solo, ad ascoltare nient’altro che le mie emozioni. Un tramonto che mi rimarrà impresso nella mente e che non scorderò mai, fu quello che vidi sul bel pianoro del Vegro – Sassonegro presso Valle S. Giorgio, in un incantevole sabato pomeriggio d’inizio dicembre. Già dal mattino, l’azzurro del cielo si presentava intenso e luminoso. Era bellissimo guardarlo nella sua totale purezza, mi trasmetteva gioia, serenità. Dalla terrazza di casa, vedevo stagliarsi all’orizzonte la sagoma dei colli che mi davano il buongiorno vestiti a festa. Nell’aria fredda e cristallina, si confondeva l’odore di neve, di biancheria pulita, di pane fatto in casa, di un Natale che pian piano si stava avvicinando. Udii le campane della vicina parrocchiale, suonare le dieci. Sentendo quei lenti rintocchi scandire regolarmente l'andar del tempo ebbi come un senso di rilassatezza, di appagamento. Socchiusi gli occhi, immaginando di essere trasportato in luoghi remoti, sperduti nel tempo, dove la pace e il silenzio trovano nel cuore un tiepido rifugio. Suggestionato da tali pensieri, mi resi conto di avere addosso soltanto un semplice maglioncino di cotone. Rientrai infreddolito, con il desiderio di scaldarmi con un buon caffè bollente. Preparai la tradizionale cògoma[1] con gesti lenti e misurati come in un rito propiziatorio. Non avevo voglia di modernità e di rumorose macchinette “espresso”. Avvolto nel magico silenzio della casa, aspettavo impaziente che il gorgoglio della bruna miscela salisse pian piano dalla moka e diffondesse in ogni stanza il suo fragrante aroma: volevo assaporare quel momento di calda intimità, nella maniera più autentica e naturale possibile. Il sole entrava radioso, andando a sbattere con prepotenza sulle pareti della cucina, creando un taglio di luce così netto, da far sembrare il muro dipinto in due tonalità diverse. Respiravo il profumo del caffè che ancora aleggiava in cucina e negli occhi avevo ancora i vividi colori del mattino. Pensai allora che se la giornata fosse continuata così, verso sera avrei assistito a un tramonto da favola. Nel frattempo, però, mi era venuta voglia di muovermi e di godermi quell'immenso azzurro, fino in fondo. Mi diressi verso il vicino argine che costeggia il corso del canale Battaglia: una piacevole e rilassante camminata che percorro ogni tanto quando il desiderio di solitudine si fa incalzante e la necessità di stare in pace con i miei pensieri mi sovrasta. Tutt'intorno c'era una pienezza di luce quasi accecante, il riflesso del sole era così forte, che a stento riuscivo a tenere gli occhi aperti. Giunsi sull'argine e cominciai a percorrere la lunga scia asfaltata, lasciandomi trasportare dal quieto andare dell'acqua e dai vivaci mulinelli che, di tanto in tanto, ne increspavano il flusso. Fatti pochi passi, sulla mia destra, la settecentesca Villa Molin si apprestava a darmi di sé l'immagine, superba e maestosa, della sua intramontabile bellezza. La vidi specchiarsi nell’acqua, frivola e vanitosa come una primadonna, in un mutevole gioco di ombre e di riflessi che la corrente disperdeva lungo il canale. Di fronte alla Villa, scendendo l'argine, in un groviglio d’erbe e sterpaglie, vi erano i resti di un vecchio pontile di legno, un tempo meta d'attracco per imbarcazioni dedite al carico e scarico merci o al trasporto di passeggeri in visita alla Villa. Poco più avanti, su una delle insenature presenti lungo il canale create per gli amanti della pesca sportiva, stava un anziano signore sulla settantina che, seduto su un piccolo sgabello in alluminio, attendeva pazientemente che qualche pesce abboccasse al suo amo. Indossava una camicia di flanella a quadretti e un giaccone nero di lana pesante, dei pantaloni blu scuro della tuta e delle scarpe color tabacco, imbrattate di terra e fango. Aveva in testa un berretto mimetico verde militare che metteva in risalto il bianco immacolato dei capelli. Portava al collo un cordoncino alle cui estremità erano attaccati degli occhiali che inforcava sulla punta del naso ogni volta che doveva tirare su la lenza e rimettere l'esca nell'amo. L’impressione che mi diede fu quella di un pescatore sostanzialmente pratico, sicuro del fatto suo. Questo ebbi modo di notarlo dalle poche cose che portava con sé: una vaschetta di plastica trasparente contenente della pastura, un secchio vuoto di pittura murale da 5 kg. dove depositare l'eventuale pesce pescato e uno straccio. Basta. Il suo modo così essenziale di pescare mi mise addosso una tale curiosità che decisi di fermarmi ad osservarlo. Immobile, appollaiato sul suo seggiolino di tela e alluminio, reggeva la canna con fierezza attendendo pazientemente che il passaggio di qualche pesce la facesse oscillare. D’improvviso si ridestava, si alzava dal seggiolino e usando la leva del mulinello iniziava a tirare su la lenza che riemergeva dall’acqua mostrando alla fine l’amo con attaccati solo lunghi fili d’erba. Il vecchio però non si scoraggiava e, dopo aver ripulito l’amo e rimesso di nuovo l’esca, lanciava con vigore la lenza in un punto ancora più lontano, poi si rimetteva a sedere e aspettava. Quest’operazione la rifece più volte, ma sempre con scarsi risultati. Quello che invece gli capitò più tardi fu il momento di vero pathos, la classica scena madre, dove nervi saldi e concentrazione sono di solito fondamentali. Dopo aver eseguito l’ennesimo lancio, vidi l’anziano pescatore armeggiare con insistenza sul mulinello e tirare a sé la canna fino a inarcarla facendola diventare una “U”. E tirava, tirava, senza riuscire a far muovere la lenza di un solo centimetro: l’amo si era incagliato tra i sassi e la vegetazione del fondale. Fu a questo punto che ammirai tutta la sua maestria. Senza dire una parola, con la calma serafica di un giocatore di biliardo, disincagliò a piccoli strappi l'amo inclinando la canna a destra e a sinistra finché riuscì a farlo riemergere con la lenza ancora intatta. Non c’era più il piombo, inghiottito dalle erbe, ma ugualmente chapeau! Purtroppo, nella mia breve attesa, l’arzillo pescatore non tirò su l’ombra di un pesce: solo alghe, rametti e fanghiglia. Evidentemente, quel giorno, le divinità ittiche non erano dalla sua parte e ce la stavano mettendo tutta per fargli terminare la giornata con un sonoro “cappotto”.[2] Lasciai le speranze dell'indomito pescatore e proseguii il cammino, superando vecchi rustici, case coloniche e alcuni alberi pieni di cachi. Il passaggio di un aereo mi distolse dai miei pensieri. Mi fermai guardando verso l’alto. Un punto metallico, illuminato dal sole, lasciava dietro se una soffice scia bianca: era solo una linea, una traccia, in quell’incredibile vastità d’azzurro. Poi, lentamente, la scia si espandeva formando nel cielo tanti piccoli fiocchi morbidi e leggeri,che andavano a sciogliersi nei celesti più tenui dell’orizzonte. Continuai il mio tranquillo passeggiare mentre, dall'altra parte del canale, mi giungevano i rumori del traffico e delle fabbriche che continuavano incessanti la loro frenetica attività. Provai a distrarmi da quel triste e caotico grigiore, tuffandomi in atmosfere più tranquille e rilassanti. Spostai lo sguardo e, in lontananza, tra una serie di nudi alberi, vidi risaltare, aerei e solitari, dei nidi di uccelli incastonati con abilità e precisione nell’intricato biforcarsi di alti rami che oscillavano avanti e indietro alle gelide folate di vento. Più avanti, come in uno scorrere di diapositive, il paesaggio cambiava aspetto. Immensi campi di terra bruna, finemente arati, si perdevano a vista d'occhio verso i paesi limitrofi, sino a raggiungere i lontani abitati dei colli Euganei. Erano divisi, in bell'ordine, da strette canalette, alberi e giovani arbusti, con larghe fasce d'erba, bruciate dal freddo e dalla brina, a segnare le vie d'accesso. L’aria intanto, si era fatta ancora più rigida e le improvvise sferzate di vento, si abbattevano sul mio viso come lame taglienti ma non ci badavo, era troppo bello ciò che mi circondava. Andai avanti, fiancheggiando ancora abitazioni, orti, piccoli vigneti e una vecchia casa rurale di fine ottocento. Sullo sfondo, nascoste dall’alta vegetazione, s’intravedevano le sagome ondulate dei colli, impazienti di scoprirsi ai miei occhi in tutta la loro bellezza e sontuosità. Davanti a me invece, la Rocca di Monselice assumeva, da lontano, le forme essenziali e pulite di un piccolo quadratino che, posato sui morbidi e rotondi profili del colle, componeva un’immagine alquanto particolare, quasi sensuale. Voltai nuovamente lo sguardo verso le ampie coltivazioni, come attratto da qualcosa di supremo, di magico. All'orizzonte, mi si presentava l'immenso, l'incomparabile. Tutto era infinitamente chiaro, visibile, smisurato. A 180°gradi le tondeggianti e nitide cime del Venda, del Vendevolo, del M. della Madonna, dei monti Grande, Ricco, Gallo e Rua, si univano a quelle più severe e frastagliate delle Prealpi Venete, impettite nel loro bianco mantello e rese ancor più surreali dalla luce obliqua del sole che ne irradiava le pareti: uno spettacolo unico. Era la prima volta che assistevo a un simile evento: due conformazioni diverse l'una all'altra, dividevano in due il panorama. Sembrava che quel giorno avessero deciso di incontrarsi e salutarsi con un fraterno abbraccio. Restai per qualche minuto a contemplare in silenzio quell'incantevole anfiteatro fatto di luci e ombre, di primi e secondi piani, di linee dolci e armoniose che via via andavano a impennarsi in un susseguirsi di guglie e pinnacoli, per poi confondersi tra i rami spogli degli alberi che ne lasciavano intuire il proseguimento, sino a scomparire dietro i tetti luccicanti di case e palazzi. Seguitai il mio cammino e, a pochi passi dal Ponte della Fabbrica, il mio sguardo si posò su un alberello di cipresso nano, piantato proprio sul ciglio della stretta scia d'asfalto. Per terra vi erano dei fiori colorati con dell'edera e un cippo in pietra faceva da sfondo a una piccola foto che ricordava la breve esistenza di una vita. Mi fermai a guardare quel giovane volto, in silenzio, stretto da un sentimento di cordoglio che in quella circostanza mi univa ai suoi cari. Guardai l'ora: mezzogiorno e un quarto. Avrei potuto continuare ancora la mia camminata, oltrepassando il ponte e proseguendo verso Mezzavia, ma preferii fare marcia indietro e, meditando su tutto quello che avevo visto fino a quel momento, ripresi lentamente la via del ritorno. La giornata continuava a rimanere splendente e piena di colori: le mie previsioni si stavano avverando. Avevo ancora tutto un pomeriggio da vivere e una gran voglia di ripartire. Verso l’una, preparai un pranzo veloce: pasta al sugo, una bistecca con l’insalata e, per ultimo, un caffè. Abbandonai poi ogni mio pensiero e mi lasciai andare a un buon sonno ristoratore. Mi svegliai verso le quattro, il sole iniziava ad assumere le tonalità calde e avvolgenti del tardo pomeriggio, lasciando che il cielo si colorasse di un azzurro intenso, quasi blu. Dovevo prefissarmi una meta e partire al più presto ma, sul momento, non mi venne in mente nessun luogo in particolare così decisi di pensarci durante il viaggio. Presi tutto ciò che mi serviva e, in un lampo, uscii di casa. Strada facendo, mi ricordai che nei pressi di Valle S. Giorgio, vi era un posto molto bello situato in un punto aperto e panoramico chiamato Vegro – Sassonegro, dove sicuramente avrei potuto beneficiare degli ultimi sussulti di una giornata a dir poco incantevole. Seguendo le indicazioni per Arquà Petrarca, percorsi la pittoresca Statale 16 accompagnato da una natura che, seppur spoglia, emanava ugualmente un suo fascino particolare. Il regolare e simmetrico ondulare dei campi, illuminati dalla magica luce del sole, si accendeva ai magici colori della terra di Siena, dell’ocra, del marrone bruciato, del verde chiaro dei prati e delle scie d’erba che segnavano la perfetta geometria dei filari spogli, mentre i sempreverdi olivi risaltavano nella loro caratteristica tonalità. Solitari casolari comparivano qua e là come sentinelle, a sorvegliare un paesaggio solo apparentemente immobile. Ero di fronte ad un “affresco” di rara suggestione. Arrivai a un bivio, girai a sinistra e lasciandomi alle spalle il centro di Arquà proseguii lungo la Provinciale 21 che mi avrebbe portato, dopo la salita di alcuni tornanti, al Passo delle Croci in località Sassonegro. Qui svoltai di nuovo a sinistra per una stretta via sterrata (via Moschine) dove parcheggiai. Scesi dall’auto e subito un’ondata d’aria pulita inondò le mie narici. La respirai a pieni polmoni, più volte, inebriandomi del suo profumo fino a lacrimare. Guardai l’ora: meno dieci alle cinque. Il cielo cominciava ad assumere tonalità crepuscolari lasciando intravedere bagliori di autentica poesia. Con lo zaino sulle spalle e la macchina fotografica a tracolla, attraversai la Provinciale (via Aganoor) e mi diressi, prendendo via Pajone, verso il pianoro. Fatti pochi metri, due ali di staccionata m’introducevano in quello che reputo uno dei punti panoramici più belli dei colli Euganei. In leggera salita giunsi finalmente alla sommità dell'aperto pianoro. Qui, ebbi una vista spettacolare. Sulla sinistra, il Monte Castello e la chiesa di Calaone, iniziavano le danze unendo i loro profili al Monte Cero che s’immergeva sull’ordinata pianura ricoperta di vigneti, coltivazioni e lunghe strisce di terra arata. Più in là, diviso da un’estensione di campi che si perdevano all’orizzonte, con le Prealpi che iniziavano a mostrare i colori del tramonto, si ergeva il Monte Gemola: in basso il bellissimo campanile della parrocchiale di Valle S. Giorgio, mentre in cima se ne stava accovacciata la seicentesca Villa Beatrice. Sulla destra, poco spostato dal Gemola, la sagoma tondeggiante del Monte Rusta, andava ad abbracciare i dolci pendii del Monte Fasolo. Sullo sfondo, le antenne del Monte Venda svettavano alte e snelle, lanciando in un cielo color ambra le loro frequenze. E ancora il Rua, l’Orbieso e il Ventolone a chiudere una rassegna di cime da togliere il fiato. Alle mie spalle invece, la Rocca di Monselice e il Monte Ricco dominavano la pianura, con gli abitati di Arquà Petrarca, Monselice, Monticelli, Galzignano e Battaglia Terme, che pian piano cedevano la loro luce alle prime ombre della sera. Ritornai con lo sguardo verso ovest, dove lo spettacolo stava per iniziare. In un autentico palcoscenico naturale, la sfera gialla e fluorescente del sole cominciava lentamente il suo tramonto accendendo il cielo di rossi e arancioni che andavano a fondersi verso l'alto in colori più ambrati fino a raggiungere il crescente tono degli azzurri e dei blu. Le nuvole erano lievi pennellate di rosa che accarezzavano il cielo. Assorte e silenziose, anche le Prealpi assumevano i colori forti del corallo e del granato, formando quasi un tutt'uno con l'orizzonte infuocato: solo la linea scura e sottile disegnata dalle creste, ne faceva intuire la presenza. Intanto il sole lentamente si eclissava, portando con sé le ultime luci. L'azzurro del cielo veniva inghiottito dal blu scuro della sera che abbruniva ogni cosa rendendola fredda, lontana. Era come assistere al lento spegnersi della vita. Una sensazione di solitudine e di abbandono mi pervase l’animo, portandomi alla memoria la figura di mio padre. In quel luogo incantato dove regnava sovrano il silenzio, sentii forte la sua presenza e il ricordo, ancora vivo nella mente, mi portò al pianto. Piansi, piansi come non avevo mai fatto in vita mia. Piansi di nostalgia, di rabbia. Piansi pensando a quelle cose che ancora avrei potuto condividere con lui, a quello che avrei dovuto dirgli e per pigrizia o timidezza, non ebbi il coraggio di dire, assistendo impotente all’oscuro tiranno che in breve tempo se lo portò via in una fredda notte d’autunno, lasciandomi dentro un grande vuoto e un profondo senso di rimorso. Mi asciugai le lacrime e osservai l'orizzonte. I colori del tramonto si stavano pian piano affievolendo. Pian piano la natura calava nell’oscurità, divenendo sempre più uniforme e immobile. Anche il gelido vento, che fin prima la scuoteva, si stava placando. Dalla pianura, i centri abitati s'illuminavano come tante stille lucenti facendo sembrare il paesaggio, un immenso presepe. Dal largo pianoro tornai verso l'auto, accompagnato dall’incerta luce che rimaneva. Scendendo la strada del ritorno, illuminata dall’ultimo rosa della sera e dagli abbaglianti delle macchine, ripensai alla giornata appena trascorsa, consapevole di aver realizzato qualcosa di bello, di importante. Di sicuro ebbi il tempo necessario per confrontarmi con me stesso, riflettendo sui miei pensieri, ascoltando i miei sentimenti, anche i più profondi e trovando la certezza che lassù, nell’immensità celeste, esiste un Creatore che ci aiuta e ci guida nel tortuoso percorso della vita senza mai farci sentire soli. 

Ciao papà, ti voglio bene. 

[1]) Caffettiera, moka
[2]) Cappotto = Giornata di pesca senza alcuna cattura





INVERNO A CALAONE 

Era una fredda domenica di febbraio. Nevicava con insistenza già da qualche giorno. L’aria rigida e secca aveva fatto aderire ancora di più la neve al suolo. Tutto era coperto da un candido manto, tutto sembrava magico e irreale. Un paesaggio incantato e fiabesco mi portava alla memoria vecchie storie di una lontana fanciullezza in cui gnomi, fate, streghe e animali immaginari, popolavano i sogni di notti fantasiose. Il cielo plumbeo e uniforme continuava a mulinare neve che scendeva leggera, impalpabile, posandosi silenziosa su tutto ciò che incontrava, cambiandone completamente aspetto. Un’atmosfera ovattata attutiva ogni tipo di suono. Tutto si assopiva nel magico abbraccio dell’inverno. Sembrava di stare all’interno di una sfera trasparente, dove argentei cristalli, a ogni oscillazione, prendevano vita trasformandosi in soffice neve che, lentamente, avvolgeva il paesaggio. “ Se continua così – pensai – dovrò prendere la pala per uscire!”. Giravo per casa, nervosamente. Ogni tanto, guardavo fuori, con la speranza che la bianca signora chiudesse i boccaporti. Avevo voglia di uscire, di evadere da quelle mura che mi angosciavano. Allora, mi venne in mente una frase che dissi a mia moglie Anna, durante una camminata estiva a Calaone: “Sai, se quest’inverno ci sarà neve, mi piacerebbe tornarci per vedere come indosserà l’abito bianco!”. Così, senza esitare, presi la decisione che nel pomeriggio avrei organizzato la partenza. Nel frattempo mi accorsi che una nuova luce, entrava dalla finestra. Mi precipitai a vedere. Aveva finalmente smesso di nevicare. Nel cielo, prima grigio e piatto, si erano formati ampi squarci d’azzurro con qualche raggio di sole che a fatica filtrava tra le nuvole. Fui colto da un’inconscia frenesia e i solenni rintocchi di mezzogiorno, accelerarono ancor più la ritrovata voglia di partire. Preparai un pranzo veloce. Terminato il fugace pasto, corsi a preparare un po’ di cose che misi alla rinfusa dentro lo zaino. Presi l’inseparabile macchina fotografica, testimone e complice delle mie emozioni, e uscii. Fuori, tutto era un riverbero. Ogni cosa rifletteva di luce propria. In una zona dove la neve era più abbondante, un gruppo di ragazzini, con le guance arrossate, giocava a lanciarsi soffici palle di neve, rincorrendosi con una tale foga da farsi venire le facce paonazze. Alla fine, stremati, si lasciavano cadere, facendosi cullare dal soffice biancore. Era bello vederli ruzzolare, rialzarsi e poi rincorrersi nuovamente, alla ricerca di nuovi obiettivi da colpire. Ogni tanto, fumanti per il sudore, si davano tregua, portandosi le mani intirizzite alla bocca per scaldarsele, sebbene indossassero i guanti di lana. Un altro gruppetto, invece, molto più calmo e educato, cercava di ingegnarsi a realizzare un pupazzo, immediatamente preso d’assalto e distrutto dai soliti dispettosi che, fra risate e grida, se la davano a gambe, fuggendo per le vie del quartiere. Mi avvicinai alla macchina e, dopo essermi accorto che strade e marciapiedi, lentamente, si scrollavano di dosso la coltre di ghiaccio che fin prima li attanagliava, partii. Percorsi qualche chilometro e, in breve tempo, giunsi in prossimità dei colli. Erano lì che mi aspettavano, immersi in un ambiente naturale di straordinaria bellezza, vestiti a festa con il loro mantello bianco, elevandosi come bastioni a dominare una pianura ammantata di un argenteo candore, che uniformava ogni forma di vegetazione. Dove invece la neve scarseggiava, uscivano timide dai campi appena arati, le zolle di terra appena dissodate e preparate a un futuro raccolto. Ora, come avvolte da una coperta, si preparavano per un lungo sonno. Mentre mi avvicinavo alla meta, puntini fluorescenti, brillavano ai raggi obliqui del sole accompagnando, come tanti piccoli cristalli, il mio viaggio. Arrivai a Este. Seguii l’indicazione per Calaone e iniziai i panoramici tornanti che portavano al paese. Mi fermai a uno di questi, parcheggiando la macchina in una vicina piazzola. Volevo osservare dall’alto, come si presentava il paesaggio. Sobbalzai. Una vista mozzafiato evocava uno scenario quasi fiabesco che si apriva su tutta la pianura. Era come immergersi nelle malinconiche atmosfere di un dipinto di Monet: tinte delicate e armoniche si miscelavano all’orizzonte con la carta zucchero del cielo. Le case, erano macchie di colore appena accennato. I rami secchi e spogli degli alberi, s’innalzavano come dita affusolate verso il cielo, addolcendosi alla fine, con leggere pennellate di bianco. I campi erano un tocco continuo di bianchi e grigi-azzurri con qualche macchia di marrone e ocra, a testimoniare la presenza della terra. E tutto questo andava a fondersi con un azzurro inizialmente velato che aumentava di densità, man mano che l’occhio alzava lo sguardo. Respirai a fondo quell’attimo. Un alito di fiato uscì dalle mie labbra e si fece fumo, perdendosi con tutte le sue emozioni, nell’aria fredda dell’inverno. Ripresi a salire lasciandomi alle spalle le poetiche vedute. Feci gli ultimi tornanti ed ecco, arroccato in un silenzioso candore, Calaone. Lo immaginavo proprio così, come un caro amico che ti accoglie a braccia aperte, stringendoti a sé, felice nel vederti e impaziente di raccontarti, al vivace scoppiettio di un focolare, vecchie storie di lontana memoria. Parcheggiai nel piazzale della chiesa di S. Giustina, resa ancora più bella dai raggi tiepidi del sole che le baciavano la facciata. A fianco, il campanile, fiero e imponente, le faceva da scudiero. Mi addentrai tra i vicoli, timoroso di disturbare l’intima pace che regnava in quel luogo. Si udiva soltanto il rumore dei miei passi che affondavano nell’uniformità del bianco lenzuolo: orme solitarie della mia presenza. Passai vicino ad alcune case e in una di queste, vi erano alcuni olivi che, stoici e sempreverdi, resistevano come tanti soldatini, alla morsa del freddo. Sui lunghi rami nodosi, una spessa scia di bianco, ornava il loro profilo e tante piccole ciocche, posatesi qua e là, facevano sembrare le foglie soffici batuffoli di cotone. Ai loro piedi, uno strato compatto di neve, faceva intravedere un ciuffetto d’erba che, timidamente, cercava di far capolino, frustata dal gelido vento che la faceva vibrare. Poco distante, risaltava la sagoma di un gattino che, intimorito forse dalla mia presenza, si raggomitolava addosso a un tronco come se cercasse, in esso, calore e protezione. Continuai a camminare, ascoltando il mio respiro in perfetta sintonia con l’ambiente che mi circondava. In quel silenzio primordiale, il tempo sembrava essersi fermato. Le lunghe ombre che il mio corpo proiettava sulla neve, era un segnale che tra un po’ il sole si sarebbe appisolato dietro le colline, sfumando la sua luce al triste velo della sera. Presi una stradina che tagliava in due una coltivazione di olivi, fiancheggiata da alte siepi di rosmarino. Da un lato svettava la conca trachitica del Monte Cero, dall’altro, oltre gli olivi, si poteva avere una bellissima visuale sulla splendida pianura sottostante, la cui luce cominciava a miscelarsi alle offuscate tinte dell’orizzonte. Decisi così, di godermi fino in fondo quegli ultimi istanti di luce. Attraversai il campo di olivi, venendo colpito più volte, dalla fine cipria che, dall’alto, scendeva a pioggia. Scossi dai brevi sussulti del vento, volevano battezzare, così, il mio passaggio. Volevano darmi l’ultimo saluto, prima che il gelo della sera indurisse nuovamente il bianco mantello. Arrivai all’aperto panorama. Guardando il cielo, ebbi la consapevolezza che, di lì a poco, sarei stato partecipe di uno spettacolo che la natura riserva solo in certe occasioni. In un avvallamento poco innevato, vicino a una zona boscosa di robinia e castagneti, vi erano dei tronchi affusolati e ben sistemati, accatastati l’un l’altro, a formare una specie di piramide, ricoperta in cima, da un soffice strato di zucchero filato. La luce del giorno si stava affievolendo e il sole iniziava la sua esibizione. Approfittai di quella muraglia di legno, per ripararmi dalle gelide sferzate che mettevano a dura prova la sensibilità del mio corpo. Disseminati qua e là, vi erano tronchi di legno che riaffioravano da sotto la neve come fiori di bucaneve. Mi sedetti su uno di questi. Immediatamente, il mio sguardo si riempì di meraviglia nel vedere il lento calar del sole tingere il cielo di rosei colori. Tutto ben presto si sarebbe addormentato alle dolci note di una bianca ninnananna. All’improvviso, fui colto da una strana sensazione. Ebbi come l’impressione che qualcuno si fosse seduto al mio fianco. Una presenza che distinsi chiaramente ma che non mi trasmise angoscia, anzi. Ero tranquillo e a mio agio; sentivo che potevo fidarmi, come ci si fida del miglior amico. Già una volta mi capitò di vivere una situazione simile. Anche adesso, alla calda luce di un tramonto, si stava verificando lo stesso episodio. Pensai allora che mio padre fosse tornato a trovarmi. Quella presenza non poteva essere che la sua, ne ero convinto. Questo mi rendeva felice. Circondati dal gelo opulento dell’inverno, raggomitolati su trespoli di legno imbiancati, ci apprestavamo ancora una volta ad assistere, a un imperdibile tramonto. Dalle lontane coltivazioni, una sottile spirale di fumo si levava alta nel cielo e si spandeva rapidamente nell’aria posandosi leggera su orti e vigneti, sbiadendo ogni cosa e portandomi di sé l’odore acre della malinconia. Il sole continuava a scendere, scomparendo lentamente, dietro la linea sfumata dell’orizzonte. Il cielo si rinforzava di rossi, di arancioni, di gialli, fino ad arrivare alle tonalità del rosa e del violetto e tutte insieme si univano, in un solo abbraccio, ai toni crescenti dell’azzurro. Prima di congedarsi ed entrare nel ventre della terra, l’abbagliante sfera gialla aveva voluto regalarmi, nel suo ultimo spettacolo, un magico tramonto che mi riempì il cuore. Non avrei più voluto staccare gli occhi da tanta meraviglia, ma il freddo iniziava a essere pungente e a penetrarmi nelle ossa. Guardai, in un breve scorrere, le foto che avevo scattato durante il percorso. Mi alzai e nella semi oscurità, ripercorsi il cammino che mi portò, in breve tempo, al piazzale della chiesa, dov’era parcheggiata l’auto. Le fioche luci dei lampioni accompagnavano i miei passi in un distendersi irreale di bianco che dava al luogo, un tocco di sacrale misticismo. Sembrava di stare dentro a un presepe o in uno dei tanti paesaggi invernali di Pieter Bruegel. Dal cortile di una vicina casa, arrivavano le grida gioiose di bambini che giocavano a rincorrersi, tenendo fra le mani grosse palle di neve. Più avanti, un vecchio spalava a colpi di vanga il marciapiede, liberandolo dal soffice manto affinché la gente, nel transitare, non scivolasse. Il suo respiro, reso affannoso dalla fatica degli anni, provocava intorno a sé un alone di vapore che, alzandosi, andava a perdersi tra i rami degli alberi. Su un muretto, all’angolo di una via dove la strada procedeva in ripida salita, era seduto un ragazzino intento a bere del tè fumante. Ogni tanto ci soffiava sopra espandendo il dolce profumo nella brezza gelida della sera. Giunto nei pressi di una casa, il mio sguardo si posò sul volto di un bimbo che sui vetri appannati della finestra, si divertiva a scarabocchiare la liscia superficie con giochi di segni come se stesse disegnando su un foglio d’album. Arrivai al piazzale della chiesa, dove echeggiavano le dolci litanie della funzione serale. Capii allora che dovevo muovermi. Mi avvicinai alla macchina e nell’aprire la porta, respirai un’ultima volta quell’aria che sapeva d’incenso. Tornando per le strette vie del paese, mi piaceva immaginare la gente del posto rintanata nel caotico brusio di un bar o di un’osteria, immersa nel fumo di mille sigarette, ad addolcire la vita con bevute e volti accalorati. O nelle proprie case, al sinuoso danzare di una morbida fiamma che riempie con la sua luce i vetri opachi delle finestre, riscaldando, nella magica oscurità della sera, i sogni e le speranze della gente. E pian piano si fa notte. Nel tiepido focolare, si assopisce il crepitio delle braci e il vecchio camino addormentato esala l’ultimo filo di fumo, salendo silenzioso nel cielo stellato di febbraio. 






ROMEO 

Quella domenica di giugno, Anna ed io, camminavamo da quasi un’ora lungo il suggestivo e panoramico sentiero del Monte Cinto. La giornata era limpida, il cielo stendeva il suo vivido azzurro sulla pianura e i prati circostanti. Il sole tiepido, di un’inoltrata primavera, riempiva l’aria di delicate essenze e la natura esplodeva di colori con le bellissime fioriture della ginestra, del sambuco nero, della malga selvatica e del geranio sanguigno. Salivamo, con passo sicuro, le scure e frastagliate rocce che s’innalzavano decise tra un fitto bosco di castagni e aceri. Giunti in cima, due enormi massi facevano da sentinella a un panorama da togliere il fiato. Estasiati e increduli, ci sedemmo sulla parte piana del masso ad ammirare quel mare sconfinato di prati, campi e vigneti, tutti ben tenuti, curati e perfettamente in linea con gli inconfondibili profili dei colli che giganteggiavano in mezzo a quelle geometrie di verde. Più lontano, sfumate di rosa, una serie di creste facevano da sfondo abbracciando tutta la pianura. Eravamo soli, in quel momento. Nell’oasi di pace che ci circondava, sentivamo solo l’invisibile soffio dell’aria che ci avvolgeva e che muoveva, in un lento andare, le foglie degli alberi, scuotendole in un continuo e sommesso chiacchierio. Restammo per qualche minuto in silenzio, ad ascoltare la melodiosa armonia eseguita dalle soavi note della natura. Da un momento all’altro ci aspettavamo di essere portati via dalle correnti e volare lontano, leggeri, al canto sussurrato del vento. Mi alzai, presi dallo zaino la borraccia del tè e ne bevvi qualche sorso con Anna, poi scendemmo con ancora negli occhi quello straordinario spettacolo che l’uomo e la natura avevano disegnato nel tempo. Seguimmo il sentiero boscoso dell’andata e arrivammo in un grande pianoro dalla cui sommità si poteva ammirare il bel profilo del Monte Lozzo che troneggiava isolato davanti a noi, tra i fertili terreni della Valcalaona. Un’area attrezzata, posta alla fine del sentiero, ci fece decidere per una sosta. Il clima era mite e una leggera brezza di tanto in tanto, veniva a farci visita scompigliando i lunghi capelli di Anna che, alla fine, li raccolse come poteva con un fermaglio, facendo risaltare ancora di più la luminosità del suo volto. Mi fermai a guardarla con gli occhi di chi vede davanti a sé, il grande amore della vita. Avrei voluto sussurrarle parole dolci, d’amore, ma non so perché, le soffocai in gola e le tenni dentro, custodite in un angolo del mio cuore. Anna intanto, ignara dei miei intimi pensieri, preparava i panini mentre io, alzandomi dalla panca, mi diressi verso il pianoro a godermi il panorama. A un certo punto vidi salire dalla stradina che fiancheggiava il grande prato un signore, sulla settantina, alto, fisico asciutto, occhi ravvicinati e scuri, camminava con passo lento e misurato affrontando con fatica la costante salita del sentiero. Indossava una camicia di pile a grandi quadri di un colore giallo appariscente, dei pantaloni a coste di velluto grigio fumo e degli scarponi da montagna consunti e impolverati. Si avvicinò a una delle panche, posò lo zaino e tirò fuori una bottiglietta d’acqua che bevve con avidità. Lo incrociai con lo sguardo e lui, sorridendomi, mi rivolse un breve saluto con il capo, poi mi avvicinai e gli chiesi da che parte avesse preso l’itinerario, poiché lo stava percorrendo in direzione opposta alla mia. Abbassò il capo, si asciugò le labbra con il dorso della mano e guardando verso il pianoro erboso iniziò a spiegare: “Sono partito da Passo del Brajo e, percorsi alcuni metri, ho seguito una stradina sterrata che s’inerpicava verso il sentiero del Cinto. Giunto a una biforcazione, ho proseguito sul tornante di destra convinto fosse quello giusto, ma mi accorgevo che più andavo avanti più la vegetazione del bosco s’infittiva diventando sempre più ingombrante. Le tracce di sentiero erano sparite e anche i segnavia rossi sui tronchi. A quel punto ho capito che qualcosa non andava. Ho guardato la guida e con rammarico mi sono reso conto di essermi allontanato parecchio dal tracciato disegnato sulla piantina. Non sapevo cosa fare. Sarei dovuto tornare indietro e ricominciare dal bivio seguendo il sentiero opposto ma non ne avevo voglia, ero troppo distante e poi sarebbe stata una perdita di tempo. Intorno a me solo un’alta vegetazione che mi circondava e opprimeva. Dovevo affidarmi esclusivamente al mio intuito. Tornato indietro di qualche metro, ho ripreso per un attimo la traccia del sentiero accorgendomi che più in basso, nascosta tra grovigli d’erba di una fitta boscaglia, transitava una stradina. L’ho percorsa per un centinaio di metri trovandomi a un certo punto vicino a uno spiazzo erboso dove iniziava un trodo[1] che s’infilava in mezzo al bosco”. S’interruppe un attimo per dissetarsi. I suoi occhi brillavano d’emozione e guardavano fissi nel vuoto, quasi a rivivere quei momenti. Poi riprese: “Mi sembrava d’essere precipitato in un libro di racconti. La luce del sole s’infiltrava tra gli alberi proiettando e diramando i suoi raggi sul soffice tappeto d’erba, creando tutt’intorno soffuse e delicate atmosfere fiabesche: mi sentivo in paradiso! Sarei rimasto ancora lì, ad ascoltare quel silenzio senza fine, a guardare le risplendenti sfumature degli alberi che proiettavano le loro chiome, verso l’azzurro chiaro del cielo; a perdermi nei profumi delicati e pungenti di quel luogo così surreale e pieno di fascino, ma il tempo di crogiolarsi in queste sensazioni era finito. Bisognava muoversi. Il bosco si faceva più rado, lasciando intravedere poco più in là un viottolo in costante salita e un grosso castagno con un simbolo rosso sul tronco. Non mi sembrava vero. Ho pensato: “ Forse ci siamo!”. Sono corso diretto verso quel punto e quando mi sono reso conto che proprio lì passava il sentiero, mi son sentito più sollevato. Finalmente avevo trovato la via alternativa che si univa all’itinerario principale. Il resto, è venuto da sé ”. Rimasi per un po’ in silenzio pensando alla dinamica del suo racconto. L’amico sorseggiò ancora dell’acqua, prese respiro, poi mi chiese: “Manca molto per arrivare in cima al monte Cinto?” “No, non molto” risposi. “ Meno male! Ora, però, mi voglio riposare”. E si lasciò cadere pesantemente sulla panca. Guardai quell’uomo di una certa età, con gli occhi compassionevoli di un figlio. Seduto sulla panca con le lunghe gambe tese e divaricate, a più riprese si dissetava per darsi forza e riprendere un po’ alla volta fiato. Mi avvicinai ad Anna, la guardai: ci capimmo al volo; qualche istante dopo, erano pronti un paio di panini anche per “ l’avventuriero senza nome ”. Così lo ribattezzai, ma solo perché non c’eravamo ancora presentati. Lo invitai a sedersi con noi, a dividere quel poco che avevamo nello zaino e lui, senza farselo ripetere due volte, ringraziando, accettò. Scoprii, mentre consumavamo lo spuntino, che si chiamava Romeo. Non era sposato e viveva da solo. Nella sua vita era sempre stato uno spirito libero, senza padroni che lo incalzassero dicendogli le cose che doveva fare o non fare, senza l’assillo di dover rendere conto a qualcuno e senza la smania di arrivare per forza in orario a un appuntamento. A quarant’anni, Romeo, dopo la scomparsa del padre, aveva iniziato un’attività in proprio con un negozio di ferramenta acquistato con i risparmi racimolati in tanti anni di vita da agricoltore, quella stessa che, a malincuore, aveva dovuto abbandonare e alla quale era profondamente legato. Uno dopo l’altro, i suoi fratelli se n’erano andati altrove dove i guadagni erano facili e le fatiche certamente minori. Romeo era stato l’ultimo ad arrendersi. Solo, con la madre inferma da accudire giornalmente, si era trovato ora ad affrontare un nuovo lavoro con altri ritmi e altre responsabilità, ma non per questo si era abbattuto, anzi. Lavorava duro, come aveva sempre fatto e, nel corso degli anni, si prese le sue belle soddisfazioni. L’unica cosa che invece non cambiò in Romeo, fu il suo innato spirito libero di cavallo selvaggio, una qualità (o un difetto?) che la gente che lo frequentava, imparò col tempo a conoscere e ad accettare perché in fondo era un brav’uomo, onesto e leale: questo bastava. Anche nel lavoro, Romeo, aveva le sue idee. Ad esempio, l’orario di apertura e chiusura non era mai lo stesso, apriva e chiudeva le serrande a suo piacimento, mandando in crisi i poveri clienti che desideravano fare acquisti nel suo negozio. Non volle mai assumere personale perché, a suo dire, serviva a poco: era solo denaro buttato al vento; così, il negozio se lo gestiva personalmente. Voleva sganciarsi da qualsiasi legame o regola. Era fatto così. Perché allora questo insistente desiderio di solitudine? Forse per un perduto amore? O per una scommessa personale? Oppure per dimostrare agli altri che ce l’avrebbe fatta da solo? Romeo non seppe darmi una risposta, restò in silenzio e nel suo volto, calò improvvisamente un velo di malinconia. Nella sua mente tornarono a galla i ricordi del passato. La dura scorza di uomo forte e deciso lasciava spazio alla memoria della sua lontana gioventù. Posò sul tavolo l’ultimo pezzo di panino e fissandoci con sguardo affabile, iniziò a raccontare: “ Ero il terzo di otto fratelli, cinque maschi e tre femmine. Antonio e Francesco, i due più vecchi, stavano al fronte a combattere una guerra assurda. Fin da piccolo sono stato abituato dai miei genitori, al lavoro duro e faticoso dei campi e alla vita umile e solitaria del contadino. Sebbene fossimo in tanti, non ci è stato fatto mancare nulla, non ci sentivamo poveri, anche se di povertà a quei tempi ce n’era tanta. Avevamo campi coltivati a granturco, vigneti che ci davano del buon vino, alberi da frutta dove coglievamo dolci primizie che, sotto le mani esperte e pazienti di nostra madre, diventavano gustosissime marmellate e l’orto, dalla terra buona e fertile, dove si piantava tutto quello che la stagione offriva in quel periodo. Nel complesso, quindi, mi ritenevo un ragazzo fortunato. Vivevamo, insieme ai miei genitori, in una casa costruita negli anni della Seconda Guerra, molto semplice, tirata su a pietre e calce ed era composta di due piani. Sotto stava la cucina, quattro metri per quattro, che dava direttamente sul cortile e dove si passava gran parte della giornata. Su una parete, al centro, vi era un grande focolare che però, nelle giornate fredde d’inverno riscaldava a fatica, ma noi eravamo felici ugualmente. Ricordo che la sera, finito di cenare, io e i miei fratelli ci si radunava vicino a quel timido tepore a farci coccolare, lasciando che la fiamma ci scaldasse i volti, prima che il sonno prendesse il sopravvento ”. Poi, continuò: “A fianco, un’altra stanza serviva da deposito. Ci si metteva dentro di tutto: conigli, capre, mucche, rastrelli, forche, zapponi; c’era il posto per le sgàlmare[2], che mettevamo quando si andava a lavorare i campi e quello per le “scarpe buone”, che indossavamo nei giorni di festa: sembrava l’Arca di Noè! Una parte di questo deposito era adibito a “cantina”, dove mio padre teneva custodite delle piccole botti di legno che conservavano il vino fatto con l’uva delle nostre vigne. Nella parte opposta al focolare, vi era una scala che portava al piano di sopra, dove stavano le camere. Eravamo sprovvisti di servizi igienici e quando ci “scappava”, dovevamo andare fuori, dove mio padre aveva costruito una baracca che fungeva da latrina. Nei mesi caldi non ci badavi e andava bene, ma quando iniziava il freddo era una sofferenza!”. Fece una pausa, finì l’ultimo boccone del panino e bevve qualche sorso da una bottiglietta che conteneva un liquido color ambra. Disse che non era tè ma una bevanda energetica che un suo amico erborista gli aveva consigliato, a suo tempo, per sostenerlo durante le sue lunghe camminate: da allora, la portava sempre con sé. Poi, iniziando a mangiare il secondo panino, riprese. “ Non vi erano altre case nelle vicinanze. A volte capitava di restare senza riso o senza grano da macinare o addirittura senza qualche attrezzo che serviva per lavori di manutenzione. Allora si partiva a piedi o in bicicletta e si andava a prendere quello che ci serviva percorrendo anche diversi chilometri prima di arrivare a destinazione. Quanto ho pedalato! Ricordo che avevo una bicicletta presa in eredità da mio nonno che mi lasciò quando si accorse che non poteva più usarla per problemi alle gambe. Per me, era come possedere una macchina. La tenevo come una reliquia. Pulivo e oliavo gli ingranaggi quasi ogni giorno e se qualcosa non funzionava, ero pronto a ripararla. La usavo, il più delle volte, per delle consegne o per fare un giro intorno al paese, poi la ripulivo e la parcheggiavo agganciandola per le ruote a due grossi ganci da macellaio che calavano dal soffitto della stanza-deposito. E per farvi capire di quanto fosse importante, all’epoca, possedere una bicicletta, vi racconto anche questa. A quei tempi, durante la guerra, di fame e povertà ce n’era tanta, troppa. I miei genitori, come ho già detto, ci hanno tirato su tutti e otto con enormi sacrifici, in silenzio e con dignità. Spesso capitava che ci servisse del frumento da macinare, per cui dovevamo andarlo a prendere da dei parenti che abitavano a Vicenza. Allora lasciavamo le sgàlmare in un posto che sapevamo solo noi, ci infilavamo ai piedi le scarpe buone e partivamo in bicicletta a prendere il frumento. Ritornati a casa, ci caricavamo i sacchi in spalla e andavamo a macinarlo nel mulino che stava distante un chilometro. Finito di macinare, ci caricavamo di nuovo i sacchi in spalla e poi via, spingendo a più non posso sui pedali della bicicletta per arrivare a casa prima che facesse buio. Quante volte mi è capitato di andarci con Cesare!”. D’improvviso, dai suoi occhi scese una lacrima che gli segnò il volto e con la voce rotta dall’emozione, aggiunse: “ Cesare era il più piccolo dei miei fratelli, ci separavano solo un paio d’anni. Con lui ho condiviso i momenti più belli e spensierati della mia vita, gli volevo un gran bene e andavamo d’accordo. Parlavamo di tutto, mi sentivo libero di esprimermi e di confessargli ogni problema, ogni piccola cosa che mi angosciava o mi faceva stare male: lui aveva sempre una parola di conforto che mi risollevava il morale. Era sempre sorridente e pronto alla battuta. Un maledetto giorno d’inverno intriso di nebbia, mentre tornava in bicicletta da una consegna, una macchina non lo vide e lo falciò. Il codardo, invece di soccorrerlo continuò, senza fermarsi, la sua folle corsa assassina. Nonostante l’aiuto di qualche anima pietosa, spirò qualche ora dopo all’ospedale di Monselice”. A questo punto, Romeo prese dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto ancora lindo e si asciugò le lacrime che ora diventavano copiose e con un filo di voce, aggiunse: “ Quanto ci siamo divertiti! Ricordo i bei giorni di primavera, quando si tornava dal mulino e si faceva a gara a chi arrivava per primo al grande albero di ciliegio: chi perdeva, doveva dar prova di coraggio salendoci sopra e prendendo il maggior numero di ciliegie nel minor tempo possibile, prima che il padrone se ne accorgesse e ci cacciasse in malo modo”. Un lieve sorriso fece breccia tra le sue labbra, rasserenando l’espressione del volto. “ Ho sempre sgobbato tanto nella mia vita. Lavorare la terra, all’epoca, era molto faticoso per questo il contadino ha imparato presto ad arrangiarsi e a vivere sin da giovane la propria solitudine, dove niente ti era riconosciuto e dove tutto era dovuto. Non c’era spazio per la spensieratezza, il divertimento, per una carezza, una parola affettuosa: si doveva diventare uomini subito! Non potrò mai dimenticare quell’anno in cui, nel giorno del mio compleanno, i miei genitori mi fecero la sorpresa di regalarmi un paltò. Un paltò, capite! Chi lo aveva visto prima di allora, un paltò! Lo presi senza dire una parola, in quel momento non me ne veniva nessuna e restai lì, inebetito per alcuni minuti, a guardarmelo e riguardarmelo addosso. Fu il mio primo, vero regalo: avevo quasi trent’anni”. E proseguendo nei suoi ricordi, aggiunse: “ Nei freddi inverni, quando la terra si faceva dura come il marmo ed era difficile lavorarla, per proteggerci dal freddo, oltre alle sgàlmare, ci mettevamo anche i calzini di lana. Questi, in breve tempo, diventavano umidi per cui avevamo continuamente i piedi bagnati. Allora, prima di coricarci, li mettevamo sotto il piumino che era posto in fondo al letto. Il mattino seguente, quando al risveglio li andavamo a riprendere, li trovavamo asciutti e induriti come due pezzi di ghiaccio; questo perché le camere erano sempre immerse nell’umidità e nel gelo. In tutto questo, però, c’era anche il lato buono e divertente, quello che andava fuori dalla realtà quotidiana e faceva sognare noi bambini. Quando fuori nevicava e il freddo ci induriva le ossa, i vetri delle finestre, s’infioravano di brina dando origine a curiosi disegni che noi ragazzi andavamo a toccare, increduli a quel magico effetto. Una volta bastava poco per catturare la nostra attenzione e farci volare con la fantasia”. Romeo era un fiume in piena. Continuando a raccontare la storia della sua vita, srotolava in continuazione i bei momenti vissuti in quei luoghi a lui cari. “ Quando la primavera bussava alle porte, era consuetudine, a casa nostra, cambiare il pavimento fatto di terra battuta. Si realizzava, di solito, una volta l’anno, poco prima di Pasqua, quando il tempo si metteva al bello e il sole cominciava ad asciugare il terreno. Capitava, con le giornate umide e piovose dell’inverno, che l’ingresso fosse sempre ricoperto da uno spesso strato di maltèca [3]che noi uomini di ritorno dai campi e gli animali da cortile, si portava inevitabilmente dentro casa. Man mano che i giorni passavano, il fango si ammucchiava sempre di più formando nel pavimento, tante piccole montagnole. Allora, al fiorire della bella stagione, nostra madre ci radunava e diceva: “Su tosi, che stamatina a terasèmo!” – Su ragazzi, che questa mattina livelliamo! – Prendevamo la carriola, il badile, il piccone, la vanga e asportavamo quelle fette di terra per sostituirle con quella nuova. La stendevamo mettendoci sopra della cenere, la bagnavamo un po’e infine la battevamo, livellandola. Poi succedeva che per una decina di giorni, quando ci si sedeva, le sedie si piantavano sulla terra morbida e non si riusciva a spostarle prima che questa non ritornasse ancora una volta, dura e compatta ”. A quest’ultima frase ci scappò da ridere, pensando per un attimo alla tragicomica scena. Anche Romeo, che fino a quel momento era stato piuttosto compassato, si lasciò andare ad un irrefrenabile “ imboresso[4]”. Poi, rilassando i muscoli del volto e riprendendo un’espressione seria, concluse dicendo: “ Ora si ride, ma una volta era così. Ci si accontentava di quel poco, cercando sempre e comunque di ricavarne il massimo, sapendo benissimo che alternative non ce n’erano: o ci si adattava, o era la fine!". Avevamo ascoltato Romeo con particolare interesse. Quel suo racconto ci toccò profondamente. Era come se ci avesse preso per mano e portato a conoscere un mondo nascosto, sconosciuto, lontano dai nostri occhi e dai nostri pensieri. Lui, invece, l’aveva vissuto realmente in prima persona. Tutto questo ci fece pensare, provocando in noi un senso di estrema inutilità, abituati, oggigiorno, al continuo benessere e alle fatue comodità. Anna iniziò a ripulire il tavolo mettendo in ordine ogni cosa. Pensammo che fosse tempo di rientrare ma prima di andarcene, volevamo salutare come si deve il nostro caro amico che ci aveva regalato parte del suo tempo a raccontarci un pezzo importante della sua esistenza, insegnandoci cos’è la vita. Ci venne spontaneo abbracciarlo e lui, timidamente, abbassò lo sguardo: capimmo subito che non era abituato a simili atteggiamenti. Diede un bacio affettuoso sulla guancia di Anna mentre a me strinse con vigore la mano che, nella sua, sembrava proprio piccola. In quella stretta, sentii quanto sincero fosse quel saluto. Osservai ancora quelle mani che, oltre ad essere grandi, erano anche un libro aperto sulla sua vita. Ci caricammo gli zaini in spalla e ci mettemmo in marcia per la via del ritorno. Salutammo ancora una volta l’amico Romeo e lui, agitando la mano, contraccambiò. Lo vedemmo proseguire il cammino verso la cima del monte, ingobbito dal suo zaino che evocava voci della sua esistenza. Erano le tre del pomeriggio di un’incantevole domenica d’inizio giugno. Da quel giorno, non ebbi più occasione di rincontrarlo. Una mattina, sfogliando il giornale, notai la sua immagine presente nella pagina dei necrologi. Comunicai ad Anna la notizia ed entrambi, ne fummo addolorati. Ancora oggi, quando ci capita di ricordare quell’itinerario, un po’ di nostalgia ci vela il cuore e fa luccicare gli occhi, immaginando la figura esile e severa di Romeo attraversare, insieme al fratello Cesare, i rigogliosi sentieri del paradiso celeste. 

[1]) Sentiero 
[2]) Scarpe da lavoro. 
[3]) Poltiglia. 
[4]) Ridere di gusto. 



Questi sono alcuni dei racconti presenti nel libro. I rimanenti, insieme ad altre brevi riflessioni, li troverai acquistando "I MIEI SENTIERI" nelle seguenti librerie:







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via 27 Aprile, 19 - Monselice

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via Santuario, 39/D - Abano T.

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