Colori d'autunno

Colori d'autunno
“ Storie che vanno via veloci disperdendosi al vento come fili di fumo. Il fumo è testimone di un fuoco. La legna finisce, il fuoco si spegne. Rimane l’odore del fumo, che è ricordo. Del fuoco resta la cenere, che è memoria. Rovistando tra la cenere si pensa al fuoco che fu. Ricordare fa bene, è un buon allenamento per resistere e tirare avanti.” (Mauro Corona)

venerdì 23 maggio 2014

ROMEO


La Valcalaona con il Monte Lozzo sullo sfondo

Quella domenica di giugno, io e Anna, camminavamo da quasi un’ora lungo il suggestivo e panoramico sentiero del Monte Cinto. La giornata era limpida, il cielo stendeva il suo vivido azzurro sulla pianura e i prati circostanti. Il sole tiepido, di un’inoltrata primavera, riempiva l’aria di delicate essenze e la natura esplodeva di colori con le bellissime fioriture della ginestra, del sambuco nero, della malga selvatica e del geranio sanguigno. Salivamo, con passo sicuro, le scure e frastagliate rocce che s’innalzavano decise tra un fitto bosco di castagni e aceri. Giunti in cima, due enormi massi facevano da sentinella a un panorama da togliere il fiato. Estasiati e increduli, ci sedemmo sulla parte piana del masso ad ammirare quel mare sconfinato di prati, campi e vigneti, tutti ben tenuti, curati e perfettamente in linea con gli inconfondibili profili dei colli che giganteggiavano in mezzo a quelle geometrie di verde. Più lontano, sfumate di rosa, una serie di creste facevano da sfondo abbracciando tutta la pianura. Eravamo soli, in quel momento.
Fioritura di ginestra sul Monte Cinto
Nell’oasi di pace che ci circondava, sentivamo solo l’invisibile soffio dell’aria che ci avvolgeva e che muoveva, in un lento andare, le foglie degli alberi in un continuo e sommesso chiacchierio. Restammo per qualche minuto in silenzio in balia del vortice che coinvolgeva totalmente i nostri sensi; da un momento all’altro ci aspettavamo di essere portati via dalle correnti e volare lontano, leggeri, al canto sussurrato del vento. Mi alzai, presi dallo zaino la borraccia del tè e ne bevvi qualche sorso con Anna, poi scendemmo con ancora negli occhi quello straordinario spettacolo che l’uomo e la natura hanno disegnato nel tempo. Seguimmo il sentiero boscoso dell’andata e arrivammo in un grande pianoro dalla cui sommità si poteva ammirare il bel profilo del Monte Lozzo che troneggiava isolato, davanti a noi, tra i fertili terreni della Valcalaona. Un’area attrezzata, posta alla fine del sentiero, ci fece decidere per una sosta. Il clima era mite e una leggera brezza di tanto in tanto, veniva a farci visita scompigliando i lunghi capelli di Anna che, alla fine, li raccolse come poteva con un fermaglio, facendo risaltare ancora di più la luminosità del suo volto. Mi fermai a guardarla con gli occhi di chi vede davanti a sé, il grande amore della vita. Avrei voluto sussurrarle parole dolci, d’amore, ma non so perché, le soffocai in gola e le tenni dentro, custodite in un angolo del mio cuore. Anna intanto, ignara dei miei intimi pensieri, preparava i panini mentre io, alzandomi dalla panca, mi diressi verso il pianoro a godermi il panorama. A un certo punto vidi salire dalla stradina che fiancheggiava il grande prato un signore, sulla settantina, alto, fisico asciutto, occhi ravvicinati e scuri, camminava con passo lento e misurato affrontando con fatica la costante salita del sentiero. Indossava una camicia di pile a grandi quadri di un colore giallo appariscente, dei pantaloni a coste di velluto grigio fumo e degli scarponi da montagna consunti e impolverati. Si avvicinò a una delle panche, posò lo zaino e tirò fuori una bottiglietta d’acqua che bevve con avidità. Lo incrociai con lo sguardo e lui, sorridendomi, mi rivolse un breve saluto con il capo, poi mi avvicinai e gli chiesi da che parte avesse preso l’itinerario visto che lo stava percorrendo in direzione opposta alla mia. Abbassò il capo, si asciugò le labbra con il dorso della mano e guardando verso il pianoro erboso iniziò a spiegarmi di come fosse arrivato quassù: “Sono partito da Passo del Brajo e, percorsi alcuni metri, ho seguito una stradina sterrata che s’inerpicava verso il sentiero del Cinto.
Pianoro con ulivi
Giunto a una biforcazione, ho proseguito sul tornante di destra convinto fosse quello giusto, ma mi accorgevo che più andavo avanti più la vegetazione del bosco s’infittiva diventando sempre più ingombrante. Le tracce di sentiero erano sparite e anche i segnavia rossi sui tronchi. A questo punto ho capito che qualcosa non andava. Ho guardato la guida e con rammarico mi sono reso conto di essermi allontanato parecchio dal tracciato disegnato sulla piantina. Non sapevo cosa fare. Sarei dovuto tornare indietro e ricominciare dal bivio seguendo il sentiero opposto ma non ne avevo voglia, ero troppo distante da quel punto e poi sarebbe stata una perdita di tempo. Intorno a me solo un’alta vegetazione che mi circondava e opprimeva. Non mi restava che affidarmi al mio istinto. Sono tornato indietro di qualche metro riprendendo per un attimo la traccia del sentiero e mi sono accorto che più in basso, nascosta tra grovigli d’erba e una fitta boscaglia, transitava una stradina. L’ho percorsa per un centinaio di metri trovandomi a un certo punto vicino a uno spiazzo erboso dove iniziava un trodo
[1] che s’infilava in mezzo al bosco”. S’interruppe un attimo per dissetarsi. I suoi occhi brillavano d’emozione e guardavano fissi nel vuoto, quasi a rivivere quei momenti. Poi riprese: “… Mi sembrava d’essere precipitato in un libro di racconti. La luce del sole s’infiltrava tra gli alberi proiettando e diramando i suoi raggi sul soffice tappeto d’erba, creando tutt’intorno soffuse e delicate atmosfere fiabesche: mi sentivo in paradiso! Sarei rimasto ancora lì, disteso, ad ascoltare quel silenzio senza fine, a guardare le risplendenti sfumature degli alberi che proiettavano le loro chiome verso l’azzurro chiaro del cielo, a perdermi nei profumi delicati e pungenti di quel luogo così surreale e pieno di fascino … ma non c’era tempo, dovevo andare avanti. Ora il bosco si faceva più rado lasciando intravedere poco più in là un viottolo in costante salita e un grosso castagno con un simbolo rosso sul tronco. Non mi sembrava vero. Ho pensato: “ Forse ci siamo!”. Sono corso diretto verso quel punto e quando mi sono reso conto che proprio lì passava il sentiero, ho tirato un sospiro di sollievo. Finalmente avevo trovato la via alternativa che si congiungeva con il sentiero principale, il resto poi è venuto da sé ”. Rimasi per un po’ in silenzio pensando al suo racconto. L’amico sorseggiò ancora dell’acqua, prese respiro, poi mi chiese: “Manca molto per arrivare in cima?” “No, non molto” risposi. “ Meno male!” – riprese – “ Ora però, mi riposo” e si lasciò cadere pesantemente sulla panca. Guardai quell’uomo di una certa età, con gli occhi compassionevoli di un figlio. Seduto sulla panca con le lunghe gambe tese e divaricate, a più riprese si dissetava per darsi forza e riprendere, un po’ alla volta, fiato. Mi avvicinai ad Anna, la guardai e ci capimmo al volo; qualche istante dopo, erano pronti un paio di panini anche per “ l’avventuriero senza nome ”: così lo ribattezzai, ma solo perché non c’eravamo ancora presentati. Lo invitai a sedersi con noi, a dividere quel poco che avevamo nello zaino e lui, senza farselo ripetere due volte, ringraziando, accettò. Scoprii, mentre consumavamo lo spuntino, che si chiamava Romeo. Non era sposato e viveva da solo. Mi raccontò che nella sua vita da single, gli era sempre piaciuto essere uno spirito libero, senza padroni o rompiballe che lo incalzassero e gli dicessero cosa fare o non fare, senza l’assillo di dover rendere conto a qualcuno e senza la smania di arrivare per forza in orario a un appuntamento.

Sperone riolitico del Buso dei Briganti e sullo sfondo parte della pianura di Valcalaona

A quarant’anni, Romeo, dopo la scomparsa del padre, aveva iniziato un’attività in proprio con un negozio di ferramenta acquistato con i risparmi racimolati in tanti anni di vita da agricoltore, quella stessa che, a malincuore, aveva dovuto abbandonare e alla quale era profondamente legato. Uno dopo l’altro, i suoi fratelli se n’erano andati altrove dove i guadagni erano facili e le fatiche certamente minori. Romeo era stato l’ultimo ad arrendersi. Solo, con la madre inferma da accudire giornalmente, si era trovato ora ad affrontare un nuovo lavoro con altri ritmi e altre responsabilità, ma non per questo si era abbattuto, anzi. Lavorava duro, come aveva sempre fatto e, nel corso degli anni, si prese le sue belle soddisfazioni. L’unica cosa che invece non cambiò in Romeo, fu il suo innato spirito libero di cavallo selvaggio, una qualità (o un difetto?) che la gente che lo frequentava, imparò col tempo a conoscere e ad accettare perché in fondo era un brav’uomo, onesto e leale: questo bastava. Anche nel lavoro, Romeo, aveva le sue idee. Ad esempio, l’orario di apertura e chiusura non era mai lo stesso, apriva e chiudeva le serrande a suo piacimento, mandando in crisi i poveri clienti che desideravano fare acquisti nel suo negozio. Non volle mai assumere personale perché, a suo dire, serviva a poco: era solo denaro buttato al vento; così, il negozio, se lo gestiva personalmente. Voleva sganciarsi da qualsiasi legame o regola. Era fatto così. Perché allora questo insistente desiderio di solitudine? Forse per un perduto amore? O per una scommessa personale? Oppure per dimostrare agli altri che ce l’avrebbe fatta anche da solo? Romeo non seppe darmi una risposta, restò in silenzio e nel suo volto, calò improvvisamente un velo di malinconia. Il vento dei ricordi sembrava essersi impossessato della sua persona, del suo essere. La dura scorza di uomo forte e deciso lasciava spazio alla memoria della sua lontana gioventù. Posò sul tavolo l’ultimo pezzo di panino e fissandoci con sguardo affabile, iniziò a raccontare: “ Ero il terzo di otto fratelli, cinque maschi e tre femmine. Antonio e Francesco, i due più vecchi, stavano al fronte a combattere una guerra assurda. Fin da piccolo sono stato abituato dai miei genitori, al lavoro duro e faticoso dei campi e alla vita umile e solitaria del contadino. Sebbene fossimo in tanti, non ci è stato fatto mancare nulla, non ci sentivamo poveri, anche se di povertà a quei tempi ce n’era tanta. Avevamo campi coltivati a granturco, vigneti che ci davano del buon vino, alberi da frutta dove coglievamo dolci primizie che, sotto le mani esperte e pazienti di nostra madre, diventavano gustosissime marmellate e l’orto, dalla terra buona e fertile, dove si piantava tutto quello che la stagione offriva in quel periodo. Nel complesso, quindi, mi ritenevo un ragazzo fortunato. Vivevamo, insieme ai miei genitori, in una casa costruita negli anni della Seconda Guerra, molto semplice, tirata su a pietre e calce ed era composta di due piani. Sotto stava la cucina, quattro metri per quattro, che dava direttamente sul cortile e dove si passava gran parte della giornata. Su una parete, al centro, vi era un grande focolare che però, nelle giornate fredde d’inverno, riscaldava a fatica. A fianco, un’altra stanza serviva da deposito. Ci si metteva dentro di tutto: conigli, capre, mucche, rastrelli, forche, zapponi; c’era il posto per le sgàlmare[2], che mettevamo quando si andava a lavorare i campi e quello per le scarpe buone, che indossavamo nei giorni di festa: sembrava l’Arca di Noè! Una parte di questo deposito era adibito a “cantina”, dove mio padre teneva custodite delle piccole botti di legno che conservavano il vino fatto con l’uva delle nostre vigne. Nella parte opposta al focolare, vi era una scala che portava al piano di sopra, dove stavano le camere. Eravamo sprovvisti di servizi igienici e quando ci “scappava”, dovevamo andare fuori, dove mio padre aveva costruito una baracca che fungeva da latrina. Nei mesi caldi non ci badavi e andava bene, ma quando iniziava il freddo era una sofferenza!”. Fece una pausa, finì l’ultimo boccone del panino e bevve qualche sorso da una bottiglietta che conteneva un liquido color ambra. Disse che non era tè ma una bevanda energetica consigliata, a suo tempo, da un amico erborista che gliel’aveva indicata apposta per sostenerlo durante le sue lunghe camminate: da allora, la portava sempre con sé. Poi, iniziando a mangiare il secondo panino, riprese. “ Non vi erano altre case nelle vicinanze. A volte capitava di restare senza riso o senza grano da macinare o addirittura senza qualche attrezzo che serviva per lavori di manutenzione. Allora si partiva a piedi o in bicicletta e si andava a prendere quello che ci serviva percorrendo anche diversi chilometri prima di arrivare a destinazione. Quanto ho pedalato! Ricordo che avevo una bicicletta presa in eredità da mio nonno che mi lasciò quando si accorse che non poteva più usarla per problemi alle gambe. Per me, era come possedere una macchina. La tenevo come una reliquia. Pulivo e oliavo gli ingranaggi quasi ogni giorno e se qualcosa non funzionava, ero pronto a ripararla. La usavo, il più delle volte, per delle consegne o per fare un giro intorno al paese, poi la ripulivo e la parcheggiavo agganciandola per le ruote a due grossi ganci da macellaio che calavano dal soffitto della stanza-deposito. E per farvi capire di quanto fosse importante, all’epoca, possedere una bicicletta, vi racconto anche questa. A quei tempi, durante la guerra, di fame e povertà ce n’era tanta, troppa. I miei genitori, come ho già detto, ci hanno tirato su tutti e otto con enormi sacrifici, in silenzio e con dignità. Spesso capitava che ci servisse del frumento da macinare, per cui dovevamo andarlo a prendere da dei parenti che abitavano a Vicenza. Allora lasciavamo le sgàlmare in un posto che sapevamo solo noi, ci infilavamo ai piedi le scarpe buone e partivamo in bicicletta a prendere il frumento. Ritornati a casa, ci caricavamo i sacchi in spalla e andavamo a macinarlo nel mulino che stava distante un chilometro. Finito di macinare, ci caricavamo di nuovo i sacchi in spalla e poi via, spingendo a più non posso sui pedali della bicicletta per arrivare a casa prima che facesse buio. Quante volte mi è capitato di andarci con Cesare!...” D’improvviso, dai suoi occhi spuntò una lacrima che segnò, lentamente, il profilo dello zigomo e con la voce rotta dall’emozione, riprese: “ Cesare era il più piccolo dei miei fratelli, ci separavano solo un paio d’anni. Con lui ho condiviso i momenti più belli e spensierati della mia vita, gli volevo un gran bene e andavamo d’accordo. Parlavamo di tutto, mi sentivo libero di esprimermi e di confessargli ogni problema, ogni piccola cosa che mi angosciava o mi faceva stare male: lui aveva sempre una parola di conforto che mi risollevava il morale.
Pieris Rapae su fiori di lavanda
Era sempre sorridente e pronto alla battuta. Un maledetto giorno d’inverno intriso di nebbia, mentre tornava in bicicletta da una consegna, una macchina non lo vide e lo falciò. Il codardo, invece di soccorrerlo continuò, senza fermarsi, la sua folle corsa assassina. Nonostante l’aiuto di qualche anima pietosa, spirò qualche ora dopo all’ospedale di Monselice”. A questo punto, Romeo prese dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto ancora lindo e si asciugò le lacrime che ora diventavano copiose e mordendosi le labbra per farsi forza e non lasciarsi andare a un pianto liberatorio con un filo di voce, aggiunse: “ Quanto ci siamo divertiti!. Ricordo i bei giorni di primavera, quando si tornava dal mulino e si faceva a gara a chi arrivava per primo al grande albero di ciliegio: chi perdeva, doveva dar prova di coraggio salendoci sopra e prendendo il maggior numero di ciliegie nel minor tempo possibile, prima che il padrone se ne accorgesse e ci cacciasse in malo modo”. Un lieve sorriso fece breccia tra le sue labbra, rasserenando di colpo l’espressione del volto. “ Ho sempre sgobbato tanto nella mia vita. Lavorare la terra, all’epoca, era molto faticoso per questo il contadino ha imparato presto ad arrangiarsi e a vivere sin da giovane la propria solitudine, dove niente ti era riconosciuto e dove tutto era dovuto. Non c’era spazio per la spensieratezza, il divertimento, per una carezza, una parola affettuosa: si doveva diventare uomini subito. Non potrò mai dimenticare quell’anno in cui, nel giorno del mio compleanno, i miei genitori mi fecero la sorpresa di regalarmi un paltò. Un paltò, capite! Chi lo aveva visto prima di allora, un paltò!. Lo presi senza dire una parola, in quel momento non me ne veniva nessuna e restai lì, inebetito per alcuni minuti, a guardarmelo e riguardarmelo addosso. Fu il mio primo, vero regalo: avevo quasi trent’anni”. E proseguì ancora, ricordando: “ Nei freddi inverni, quando la terra si faceva dura come il marmo ed era difficile da lavorare, per proteggerci dal freddo, oltre alle sgàlmare, ci mettevamo anche i calzini di lana. Questi, in breve tempo, diventavano umidi per cui avevamo continuamente i piedi bagnati. Allora, prima di coricarci, li mettevamo sotto il piumino che era posto in fondo al letto. Il mattino seguente, quando al risveglio li andavamo a riprendere, li trovavamo asciutti e induriti come due pezzi di ghiaccio; questo perché le camere erano sempre immerse nell’umidità e nel gelo. In tutto questo, però, c’era anche il lato buono e divertente, quello che andava fuori dalla realtà quotidiana e faceva sognare noi bambini. Quando fuori nevicava e il freddo ci induriva le ossa, i vetri delle finestre, pieni di condensa, si gelavano dando origine a curiosi disegni cristallini che noi ragazzi andavamo a toccare, increduli a quel magico effetto: una volta bastava poco per catturare la nostra attenzione e farci volare con la fantasia”. Romeo era un fiume in piena. Continuando a raccontare la storia della sua vita, srotolava in continuazione i bei momenti vissuti in quei luoghi a lui cari. “ Quando la primavera bussava alle porte, era consuetudine, a casa nostra, cambiare il pavimento che era fatto in terra battuta.
Campanula Persicifolia
Si realizzava, di solito, una volta l’anno, poco prima di Pasqua, quando il tempo si metteva al bello e il sole cominciava ad asciugare il terreno. Con le giornate umide e piovose dell’inverno, l’ingresso era sempre ricoperto da uno spesso strato di poltiglia che noi uomini di ritorno dai campi e gli animali che circolavano in cortile, portavamo inevitabilmente dentro casa. Così, con il passare dei giorni, il fango si ammucchiava sempre di più formando nel pavimento, tante piccole montagnole. Allora nostra madre ci richiamava, dicendoci: “ Su tosi, che stamatina a terasèmo!” ( Su ragazzi, che questa mattina livelliamo! ) Quindi, prendevamo la carriola, il badile, il piccone, la vanga e asportavamo quelle fette di terra per sostituirle con quella nuova. La stendevamo mettendoci sopra della cenere, la bagnavamo un po’ e infine la battevamo, livellandola. Ma poi succedeva che per una decina di giorni, quando ci si sedeva, le sedie si piantavano sulla terra morbida e non si riusciva a spostarle prima che questa, non ritornasse ancora una volta, dura e compatta ”. A quest’ultima frase ci scappò da ridere, pensando per un attimo alla tragicomica scena e anche Romeo, che fino a quel momento era stato serio e compassato, si lasciò andare ad un irrefrenabile “ imboresso
[3]”. Poi, rilassando i muscoli del volto e riassumendo un’espressione seria, concluse dicendo: “ Ora si ride, ma una volta era così. Ci si accontentava di quel poco che avevamo, cercando sempre e comunque di ricavarne il massimo, sapendo benissimo che alternative non ce n’erano: o ci si adattava, o era la fine!". Avevamo ascoltato Romeo con particolare interesse. Quel suo racconto ci toccò sensibilmente. Era come se ci avesse preso per mano e portato a conoscere un mondo nascosto, sconosciuto, lontano dai nostri occhi e dai nostri pensieri. Invece lui l’aveva vissuto realmente, in prima persona e questo ci fece sentire piuttosto a disagio. Anna iniziò a ripulire il tavolo mettendo in ordine ogni cosa. Pensammo che era tempo di rientrare ma prima di andarcene, volevamo salutare come si deve il nostro caro amico che ci aveva regalato parte del suo tempo a raccontarci un pezzo importante della sua esistenza insegnandoci cos’è veramente la vita. Ci venne spontaneo abbracciarlo e lui, timidamente, abbassò lo sguardo: capimmo subito che non era abituato a simili atteggiamenti. Diede un bacio affettuoso sulla guancia di Anna mentre a me strinse con vigore la mano che, nella sua, sembrava proprio piccola. In quella stretta, sentii quanto sincero fosse quel saluto. Osservai ancora quelle mani che, oltre ad essere grandi, erano anche un libro aperto sulla sua vita. Ci caricammo gli zaini in spalla e ci mettemmo in marcia per la via del ritorno. Salutammo ancora una volta l’amico Romeo e lui, agitando la mano, contraccambiò. Erano le tre del pomeriggio di un’incantevole domenica di giugno. Da quel giorno, non ebbi più occasione di rincontrarlo. Una mattina, sfogliando il giornale, vidi l’immagine di Romeo sulla pagina dei necrologi, ci addolorò vedere la sua foto inserita tra la gente scomparsa. Ancora oggi, quando ci capita di ricordare quell’itinerario, un po’ di nostalgia ci vela il cuore e fa luccicare ancora i nostri occhi, immaginando la figura esile e severa di Romeo attraversare, insieme al fratello Cesare, i rigogliosi sentieri del paradiso celeste. 

[1]) Sentiero 
[2]) Scarpe da lavoro 
[3]) Ridere di gusto

Rosa Canina

Vai al sentiero:
http://www.parcocollieuganei.com/doc/sentieri/CINTO.pdf

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