Colori d'autunno

Colori d'autunno
“ Storie che vanno via veloci disperdendosi al vento come fili di fumo. Il fumo è testimone di un fuoco. La legna finisce, il fuoco si spegne. Rimane l’odore del fumo, che è ricordo. Del fuoco resta la cenere, che è memoria. Rovistando tra la cenere si pensa al fuoco che fu. Ricordare fa bene, è un buon allenamento per resistere e tirare avanti.” (Mauro Corona)

sabato 31 maggio 2014

UNA GIORNATA PARTICOLARE





Un giorno lessi un bellissimo aforisma di Yogananda, un grande maestro spirituale indiano, che diceva: “Ogni volta che osservi un bel tramonto, pensa fra te e te: “E’ Dio che dipinge il cielo”. Anche a me è capitato, in più di un’occasione, di contemplare l’infinito splendore di maestosi tramonti, dai colori bellissimi, con sfumature che sfociavano in cromatismi incredibili tanto da sembrare dipinte nel cielo. Totalmente immerso in quell’atmosfera di calda serenità, di profonda pace, ammiravo incredulo l’evolversi di forme e striature dorate che dolcemente accarezzavano il cielo per espandersi poi, lentamente, tra le tonalità rosso cupo dell’orizzonte. Stavo di fronte a qualcosa di surreale, onirico, che mi allontanava da tutto e tutti. Solo, ad ascoltare nient’altro che le mie emozioni. Un tramonto che mi rimarrà impresso nella mente e che non scorderò mai, fu quello che vidi sul bel pianoro del Vegro – Sassonegro presso Valle S. Giorgio, in un incantevole sabato pomeriggio d’inizio dicembre. Già dal mattino, l’azzurro del cielo si presentava intenso e luminoso: era bellissimo guardarlo nella sua totale purezza: mi trasmetteva gioia, serenità. Dalla terrazza di casa, vedevo stagliarsi all’orizzonte le sagome dei colli e l’imponente catena delle Prealpi spruzzate di bianco. Nell’aria fredda e cristallina, si confondevano l’odore di neve, di biancheria pulita, di pane fatto in casa, di un Natale che pian piano si stava avvicinando. Udii le campane della vicina parrocchiale, suonare le dieci. Sentendo quei lenti rintocchi scandire regolarmente l'andar del tempo ebbi come un senso di rilassatezza, di appagamento. Socchiusi gli occhi, immaginando di essere trasportato in luoghi remoti, sperduti nel tempo, dove la pace e il silenzio trovano nel cuore un tiepido rifugio. Riaprii gli occhi, cominciavo a sentire freddo. Suggestionato da tali pensieri, mi resi conto di avere addosso soltanto un semplice maglioncino di cotone. Rientrai infreddolito, con il desiderio di scaldarmi con un buon caffè bollente. Preparai la tradizionale cògoma[1] con gesti lenti e misurati come in un rito propiziatorio. Non avevo voglia di modernità e di rumorose macchinette espresso. Avvolto nel magico silenzio della casa, aspettavo impaziente che il gorgoglio della bruna miscela salisse pian piano dalla moka e diffondesse in ogni stanza il suo fragrante aroma : volevo assaporare quel momento di calda intimità, nella maniera più autentica e naturale possibile. Il sole entrava radioso, andando a sbattere con prepotenza sulle pareti della cucina, creando un contrasto di luce così netto, da far sembrare il muro dipinto in due tonalità diverse. Respiravo il profumo del caffè che ancora aleggiava in cucina e negli occhi avevo ancora i vividi colori del mattino. Pensai allora che se la giornata fosse continuata così, verso sera avrei assistito a un tramonto da favola.

Villa Molin si specchia sul canale Battaglia
Nel frattempo, però, mi era venuta voglia di muovermi e di godermi quell'immenso azzurro, fino in fondo. Mi diressi verso il vicino 
argine che costeggia il corso del canale Battaglia: una piacevole e rilassante camminata che percorro ogni tanto quando il desiderio di solitudine si fa incalzante e la necessità di stare in pace con i miei pensieri mi sovrasta. Tutt'intorno c'era una pienezza di luce quasi accecante, il riflesso del sole era così forte, che a stento riuscivo a tenere gli occhi aperti. Giunsi sull'argine e cominciai a percorrere la lunga scia asfaltata, lasciandomi trasportare dal quieto andare dell'acqua e dai vivaci mulinelli che, di tanto in tanto, ne increspavano il flusso. Fatti pochi passi, sulla mia destra, la settecentesca Villa Molin si apprestava a darmi di sé l'immagine, superba e maestosa, della sua intramontabile bellezza. La vidi specchiarsi nell’acqua, frivola e vanitosa come una primadonna, in un mutevole gioco di ombre e di riflessi che la corrente disperdeva lungo il canale.
Di fronte alla Villa, scendendo l'argine, in un groviglio d’erbe e sterpaglie, vi erano i resti di un vecchio pontile di legno, un tempo meta d'attracco per imbarcazioni dedite al carico e scarico merci o al trasporto di passeggeri in visita alla Villa. Poco più avanti, su una delle insenature presenti lungo il canale create per gli amanti della pesca sportiva, stava un anziano signore sulla settantina che, seduto su un piccolo sgabello in alluminio, attendeva pazientemente che qualche pesce abboccasse al suo amo. Indossava una camicia di flanella a quadretti e un giaccone nero di lana pesante, dei pantaloni blu scuro della tuta e delle scarpe color tabacco, imbrattate di terra e fango. Aveva in testa un berretto “tipo militare” di un colore verde marcio che metteva in risalto il bianco immacolato dei capelli. Portava al collo un cordoncino alle cui estremità erano attaccati degli occhiali che inforcava sulla punta del naso ogni volta che doveva tirare su la lenza e rimettere l'esca nell'amo. L’impressione che mi diede fu quella di un pescatore sostanzialmente pratico, sicuro del fatto suo. Questo ebbi modo di notarlo dalle poche cose che portava con sé: una vaschetta di plastica trasparente contenente della pastura, un secchio vuoto di pittura murale da 5 kg. dove depositare l'eventuale pesce pescato e uno straccio. Basta. Il suo modo così essenziale di pescare mi mise addosso una tale curiosità che decisi di fermarmi ad osservarlo. Immobile, appollaiato sul suo seggiolino di tela e alluminio, reggeva la canna con fierezza attendendo pazientemente che il passaggio di qualche pesce la facesse oscillare. D’improvviso si ridestava, si alzava dal seggiolino e usando la leva del mulinello iniziava a tirare su la lenza che riemergeva dall’acqua mostrando alla fine l’amo con attaccati solo lunghi fili d’erba. Il vecchio però non si scoraggiava e, dopo aver ripulito l’amo e rimesso di nuovo l’esca, lanciava con vigore la lenza in un punto ancora più lontano, poi si rimetteva a sedere e aspettava. Questa operazione la rifece più volte, ma sempre con scarsi risultati. Quello che invece gli capitò più tardi fu il momento di vero pathos, la classica scena madre dove nervi saldi e concentrazione sono quasi sempre fondamentali. Dopo aver eseguito l’ennesimo lancio, vidi l’anziano pescatore armeggiare con insistenza sul mulinello e tirare a sé la canna fino ad inarcarla facendola diventare una “U”. E tirava, tirava, senza riuscire a far muovere la lenza di un solo centimetro: l’amo si era incagliato tra i sassi e la vegetazione del fondale. Fu a questo punto che ammirai tutta la sua maestria. Senza dire una parola, con la calma serafica di un giocatore di biliardo, disincagliò a piccoli strappi l'amo inclinando la canna a destra e a sinistra finché riuscì a farlo riemergere con la lenza ancora intatta. Non c’era più il piombo, inghiottito dalle erbe, ma ugualmente chapeau!
L'arzillo pescatore
Purtroppo, nella mia breve attesa, l’arzillo pescatore non tirò su l’ombra di un pesce: solo alghe, rametti e fanghiglia. Evidentemente, quel giorno, le divinità ittiche non erano dalla sua parte e ce la stavano mettendo tutta per fargli terminare la giornata con un sonoro “cappotto”[2]. Lasciai le speranze dell'indomito pescatore e proseguii il cammino, superando vecchi rustici, case coloniche e alcuni alberi pieni di cachi. Il passaggio di un aereo mi distolse dai miei pensieri. Mi fermai e guardai verso l’alto. Un punto metallico, illuminato dal sole, lasciava dietro se una soffice scia bianca: era solo una linea, una traccia, in quell’incredibile vastità d’azzurro. Poi lentamente si espandeva, formando nel cielo tante nuvolette, fiocchi morbidi e leggeri che andavano a sciogliersi nei celesti più tenui dell’orizzonte. Continuai il mio tranquillo passeggiare mentre, dall'altra parte del canale, mi giungevano i rumori del traffico e delle fabbriche che continuavano incessanti la loro frenetica attività. Provai a distrarmi da quel triste e caotico grigiore, tuffandomi in atmosfere più tranquille e rilassanti. Spostai lo sguardo e, in lontananza, tra una serie di nudi alberi, vidi risaltare, aerei e solitari, dei nidi di uccelli incastonati con abilità e precisione nell’intricato biforcarsi di alti rami che oscillavano avanti e indietro alle gelide folate di vento. Più avanti, come in uno scorrere di diapositive, il paesaggio cambiava aspetto. Immensi campi di terra bruna, finemente arati, si perdevano a vista d'occhio verso i paesi limitrofi, sino a raggiungere i lontani abitati dei colli Euganei. Erano divisi, in bell'ordine, da strette canalette, alberi e giovani arbusti, mentre larghe fasce d'erba, bruciate dal freddo e dalle continue brinate, segnavano le vie d'accesso. L’aria intanto, si era fatta ancora più rigida e le improvvise sferzate di vento, si abbattevano sul mio viso come lame taglienti ma non ci badavo, era troppo bello ciò che mi circondava. Andai avanti, fiancheggiando ancora abitazioni, orti, piccoli vigneti e una vecchia casa rurale di fine ottocento. Sullo sfondo, nascoste dall’alta vegetazione, s’intravedevano le sagome ondulate dei colli, impazienti di scoprirsi ai miei occhi in tutta la loro bellezza e sontuosità. Davanti a me invece, la Rocca di Monselice assumeva, da lontano, le forme essenziali e pulite di un piccolo quadratino che, posato sui morbidi e rotondi profili del colle, componeva un’immagine alquanto particolare, quasi sensuale. Voltai nuovamente lo sguardo verso le ampie coltivazioni, come attratto da qualcosa di supremo, di magico.

Le Prealpi viste dall'argine Battaglia
All'orizzonte, mi si presentava l'immenso, l'incomparabile. Tutto era infinitamente chiaro, visibile, smisurato. A 180°gradi le tondeggianti e nitide cime del Venda, del Vendevolo, del M. della Madonna, dei monti Grande, Ricco, Gallo e Rua, si univano a quelle più severe e frastagliate delle Prealpi Venete, impettite nel loro bianco mantello e rese ancor più surreali dalla luce obliqua del sole che ne irradiava le pareti: uno spettacolo unico. Era la prima volta che assistevo a un simile evento: due conformazioni diverse l'una all'altra, dividevano in due il panorama. Sembrava che quel giorno avessero deciso di incontrarsi e salutarsi con un fraterno abbraccio. Restai per qualche minuto a contemplare in silenzio quell'incantevole anfiteatro fatto di luci e ombre, di primi e secondi piani, di linee dolci e armoniose che via via andavano a impennarsi in un susseguirsi di guglie e pinnacoli, per poi confondersi tra i rami spogli degli alberi che ne lasciavano intuire il proseguimento, sino a scomparire dietro i tetti luccicanti di case e palazzi. Seguitai il mio cammino e, a pochi passi dal Ponte della Fabbrica, il mio sguardo si posò su un alberello di cipresso nano, piantato proprio sul ciglio della stretta scia d'asfalto. Per terra vi erano dei fiori colorati con dell'edera e un cippo in pietra faceva da sfondo a una piccola foto che ricordava la breve esistenza di una vita. Mi fermai a guardare quel giovane volto, in silenzio, stretto da un sentimento di cordoglio che in quella circostanza mi univa ai suoi cari. Guardai l'ora: mezzogiorno e un quarto. Avrei potuto continuare ancora la mia camminata, oltrepassando il ponte e proseguendo verso Mezzavia, ma preferii fare marcia indietro e, meditando su tutto quello che avevo visto fino a quel momento, ripresi lentamente la via del ritorno. La giornata continuava a rimanere splendente e piena di colori: le mie previsioni si stavano avverando. Avevo ancora tutto un pomeriggio da vivere e una gran voglia di ripartire. Verso l’una, preparai un pranzo veloce: pasta al sugo, una bistecca con l’insalata ed, infine, un caffè. Abbandonai poi ogni mio pensiero e mi lasciai andare a un buon sonno ristoratore. Mi svegliai verso le quattro, il sole iniziava ad assumere le tonalità calde e avvolgenti del tardo pomeriggio, lasciando che il cielo si colorasse di un azzurro intenso, quasi blu. Dovevo prefissarmi una meta e partire al più presto ma, sul momento, non mi venne in mente nessun luogo in particolare così decisi di pensarci durante il viaggio. Presi tutto ciò che mi serviva e, in un lampo, uscii di casa.

Pianoro Vegro-Sassonegro
Strada facendo, mi ricordai che nei pressi di Valle S. Giorgio, vi era un posto molto bello situato in un punto aperto e panoramico chiamato Vegro – Sassonegro, dove sicuramente avrei potuto beneficiare degli ultimi sussulti di una giornata a dir poco incantevole. Seguendo le indicazioni per Arquà Petrarca, percorsi la pittoresca strada Statale 16 accompagnato da una natura che, seppur spoglia, emanava ugualmente un suo fascino particolare. Il regolare e simmetrico ondulare dei campi, illuminati dalla magica luce del sole, si accendeva ai magici colori della terra di Siena, dell’ocra, del marrone bruciato, del verde chiaro dei prati e delle scie d’erba che segnavano la perfetta geometria dei filari spogli, mentre i sempreverdi olivi risaltavano nella loro caratteristica tonalità. Solitari casolari comparivano qua e là come sentinelle, a sorvegliare un paesaggio solo apparentemente immobile. Ero di fronte ad un “affresco” di rara suggestione. Arrivai a un bivio, girai a sinistra e lasciandomi alle spalle il centro di Arquà proseguii lungo la Provinciale 21che mi avrebbe portato, dopo la salita di alcuni tornanti, al Passo delle Croci in località Sassonegro. Qui svoltai di nuovo a sinistra per una stretta via sterrata (via Moschine) dove parcheggiai. Scesi dall’auto e subito un’ondata d’aria pulita inondò le mie narici. La respirai a pieni polmoni, più volte, inebriandomi del suo profumo fino a lacrimare. Guardai l’ora: meno dieci alle cinque. Il cielo cominciava ad assumere tonalità crepuscolari lasciando intravedere bagliori di autentica poesia. Con lo zaino sulle spalle e la macchina fotografica a tracolla, attraversai la Provinciale (via Aganoor) e mi diressi, prendendo via Pajone, verso il pianoro. Fatti pochi metri, due ali di staccionata m’introducevano in quello che reputo uno dei punti panoramici più belli dei colli Euganei. In leggera salita giunsi finalmente alla sommità dell'aperto pianoro. Qui, ebbi una vista spettacolare: sulla sinistra, in lontananza, il Monte Castello e la chiesa di Calaone. Di fronte il Monte Cero sembrava tuffarsi su un’ordinata pianura tappezzata di vigneti, coltivazioni e lunghe strisce di terra arata; più in là, diviso da un’estensione di campi che si perdevano all’orizzonte con le Prealpi che iniziavano a mostrare i colori del tramonto, si ergeva il Monte Gemola, in basso il bellissimo campanile della parrocchiale di Valle S. Giorgio e sulla cima la seicentesca Villa Beatrice. Sulla destra, poco spostato dal Gemola, la sagoma tondeggiante del Monte Rusta, andava ad abbracciare i dolci pendii del Monte Fasolo.

Tramonto sul Monte Venda
Sullo sfondo, le antenne del Monte Venda svettavano alte e snelle, lanciando in un cielo color ambra le loro frequenze. E poi ancora il Rua, l’Orbieso e il Ventolone a chiudere una rassegna di cime da togliere il fiato. Alle mie spalle invece, la Rocca di Monselice e il Monte Ricco dominavano la pianura, con gli abitati di Arquà Petrarca, Monselice, Monticelli, Galzignano e Battaglia Terme, che pian piano cedevano la loro luce alle prime ombre della sera. Ritornai con lo sguardo verso ovest, dove lo spettacolo stava per iniziare. In un autentico palcoscenico naturale, la sfera gialla e fluorescente del sole cominciava lentamente il suo tramonto accendendo il cielo di rossi e arancioni che andavano a fondersi verso l'alto in colori più ambrati fino a raggiungere il crescente tono degli azzurri e dei blu. Le nuvole erano lievi pennellate di rosa che accarezzavano il cielo. Assorte e silenziose, anche le Prealpi assumevano i colori forti del corallo e del granato, formando quasi un tutt'uno con l'orizzonte infuocato: solo la linea scura e sottile disegnata dalle creste, ne faceva intuire la presenza. Intanto il sole lentamente si eclissava, portando con sé le ultime luci. L'azzurro del cielo veniva inghiottito dal blu scuro della sera che abbruniva ogni cosa rendendola cupa, fredda, lontana. Era come assistere al lento spegnersi della vita. Una sensazione di solitudine e di abbandono mi pervase l’animo, portandomi alla memoria la figura di mio padre. In quel luogo incantato dove regnava sovrano il silenzio, sentii forte la sua presenza e il ricordo, ancora vivo nella mente, mi portò al pianto. Piansi, piansi come non avevo mai fatto in vita mia. Piansi di nostalgia, di rabbia, piansi pensando a quelle cose che avrei potuto condividere ancora con lui, a quello che avrei dovuto dirgli e per pigrizia o timidezza non sono riuscito a dire, assistendo impotente all’implacabile cavalcata dell’oscuro tiranno che in breve tempo se lo portò via in una fredda notte d’autunno, lasciandomi dentro un grande vuoto e un profondo senso di rimorso. Mi asciugai le lacrime e osservai l'orizzonte. I colori del tramonto si stavano pian piano affievolendo. Tutt'intorno la natura aumentava la sua oscurità divenendo ancora più uniforme e immobile. Anche il vento gelido, che fin prima scuoteva la natura, si stava placando. Dal largo pianoro ritornai verso l'auto, accompagnato dall’incerta luce che rimaneva. Dalla pianura, i centri abitati s'illuminavano come tante stille lucenti, facendo sembrare il paesaggio un immenso presepe. Scendendo la strada del ritorno, illuminata dall’ultimo rosa della sera e dagli abbaglianti delle macchine, ripensai alla giornata appena trascorsa ed entrai in un’atmosfera di piacevole beatitudine e leggerezza, consapevole di aver realizzato qualcosa di bello, di importante. Di sicuro ebbi il tempo necessario per confrontarmi con me stesso, riflettendo sui miei pensieri, ascoltando i miei sentimenti anche i più profondi e trovando la certezza che lassù, nell’ immensità celeste, esiste un Creatore che ci aiuta e ci guida nel tortuoso percorso della vita senza mai farci sentire soli. 

Ciao papà, ti voglio bene. 

Negli eterei spazi del cielo il mio cuore troverà sempre rifugio nei tuoi pensieri, padre mio.





[1]) Caffettiera, moka.
[2]) Giornata di pesca senza alcuna cattura.

venerdì 23 maggio 2014

MI PRESENTO




Salve a tutti!

E' arrivato, finalmente, il momento di farmi conoscere. Meglio tardi che mai, direte voi. Allora, eccomi qui!. Mi chiamo Massimo, sono sposato con Anna e padre di due ragazzi, Matteo e Michele. Ho deciso di intraprendere questa avventura, e quindi di aprire un blog, per condividere insieme a voi, il grande amore che mi lega alla natura e alla fotografia.                                                 

Fin da ragazzo, il grande interesse e il profondo amore per la natura sono sempre stati in me vivi e forti. Natura voleva dire: libertà, esistenza, mistero; addentrarsi in essa significava immergersi in un mondo sconosciuto, ricco di fascino, tutto da scoprire e da capire. Per questo, nel corso degli anni, ho imparato a conoscerla e ad amarla. Sono entrato, in punta di piedi, nel suo mondo, attraverso le immagini, i suoni e le emozioni; dentro di lei mi sentivo protetto e sicuro, a volte così immerso da lasciarmi trasportare dalla fantasia in luoghi solitari e affascinanti, dove poter contemplare tutta la sua grandezza. La bellezza dei paesaggi, le meravigliose forme di vita, il fascino etereo di dolci atmosfere, sono ricchezze in cui non si finisce mai di perdersi, dove gli occhi si estendono negli infiniti spazi incantati di luci e colori e lo spirito si abbandona a lunghi silenzi di pace. Sono regali bellissimi, di grande valore, che la natura ci dona spontaneamente, senza chiederci nulla in cambio. Da perfetta padrona di casa ci accoglie dentro di sé, mettendoci a nostro agio, afferrandoci per mano e accompagnandoci in un percorso in cui ritroviamo una nostra identità, un nostro stato d’animo. Pervasi da un sottile misticismo, ci guardiamo dentro e immersi in un piacevole abbandono, scopriamo di aver bisogno di solitudine, d’interminabili silenzi, d’intense emozioni, di autentiche esaltazioni, diventando così parte integrante con l’ambiente che ci circonda. Ed è attraverso queste sensazioni, che è nato in me il desiderio di vivere la natura per assaporarne fino in fondo ogni attimo, ogni angolo, anche il più nascosto. 


Sarei grato a chiunque volesse porre un commento ai miei racconti o alle mie foto. Un modo simpatico e costruttivo, per sentirvi vicini in questo mio nuovo cammino. Grazie.




ROMEO


La Valcalaona con il Monte Lozzo sullo sfondo

Quella domenica di giugno, io e Anna, camminavamo da quasi un’ora lungo il suggestivo e panoramico sentiero del Monte Cinto. La giornata era limpida, il cielo stendeva il suo vivido azzurro sulla pianura e i prati circostanti. Il sole tiepido, di un’inoltrata primavera, riempiva l’aria di delicate essenze e la natura esplodeva di colori con le bellissime fioriture della ginestra, del sambuco nero, della malga selvatica e del geranio sanguigno. Salivamo, con passo sicuro, le scure e frastagliate rocce che s’innalzavano decise tra un fitto bosco di castagni e aceri. Giunti in cima, due enormi massi facevano da sentinella a un panorama da togliere il fiato. Estasiati e increduli, ci sedemmo sulla parte piana del masso ad ammirare quel mare sconfinato di prati, campi e vigneti, tutti ben tenuti, curati e perfettamente in linea con gli inconfondibili profili dei colli che giganteggiavano in mezzo a quelle geometrie di verde. Più lontano, sfumate di rosa, una serie di creste facevano da sfondo abbracciando tutta la pianura. Eravamo soli, in quel momento.
Fioritura di ginestra sul Monte Cinto
Nell’oasi di pace che ci circondava, sentivamo solo l’invisibile soffio dell’aria che ci avvolgeva e che muoveva, in un lento andare, le foglie degli alberi in un continuo e sommesso chiacchierio. Restammo per qualche minuto in silenzio in balia del vortice che coinvolgeva totalmente i nostri sensi; da un momento all’altro ci aspettavamo di essere portati via dalle correnti e volare lontano, leggeri, al canto sussurrato del vento. Mi alzai, presi dallo zaino la borraccia del tè e ne bevvi qualche sorso con Anna, poi scendemmo con ancora negli occhi quello straordinario spettacolo che l’uomo e la natura hanno disegnato nel tempo. Seguimmo il sentiero boscoso dell’andata e arrivammo in un grande pianoro dalla cui sommità si poteva ammirare il bel profilo del Monte Lozzo che troneggiava isolato, davanti a noi, tra i fertili terreni della Valcalaona. Un’area attrezzata, posta alla fine del sentiero, ci fece decidere per una sosta. Il clima era mite e una leggera brezza di tanto in tanto, veniva a farci visita scompigliando i lunghi capelli di Anna che, alla fine, li raccolse come poteva con un fermaglio, facendo risaltare ancora di più la luminosità del suo volto. Mi fermai a guardarla con gli occhi di chi vede davanti a sé, il grande amore della vita. Avrei voluto sussurrarle parole dolci, d’amore, ma non so perché, le soffocai in gola e le tenni dentro, custodite in un angolo del mio cuore. Anna intanto, ignara dei miei intimi pensieri, preparava i panini mentre io, alzandomi dalla panca, mi diressi verso il pianoro a godermi il panorama. A un certo punto vidi salire dalla stradina che fiancheggiava il grande prato un signore, sulla settantina, alto, fisico asciutto, occhi ravvicinati e scuri, camminava con passo lento e misurato affrontando con fatica la costante salita del sentiero. Indossava una camicia di pile a grandi quadri di un colore giallo appariscente, dei pantaloni a coste di velluto grigio fumo e degli scarponi da montagna consunti e impolverati. Si avvicinò a una delle panche, posò lo zaino e tirò fuori una bottiglietta d’acqua che bevve con avidità. Lo incrociai con lo sguardo e lui, sorridendomi, mi rivolse un breve saluto con il capo, poi mi avvicinai e gli chiesi da che parte avesse preso l’itinerario visto che lo stava percorrendo in direzione opposta alla mia. Abbassò il capo, si asciugò le labbra con il dorso della mano e guardando verso il pianoro erboso iniziò a spiegarmi di come fosse arrivato quassù: “Sono partito da Passo del Brajo e, percorsi alcuni metri, ho seguito una stradina sterrata che s’inerpicava verso il sentiero del Cinto.
Pianoro con ulivi
Giunto a una biforcazione, ho proseguito sul tornante di destra convinto fosse quello giusto, ma mi accorgevo che più andavo avanti più la vegetazione del bosco s’infittiva diventando sempre più ingombrante. Le tracce di sentiero erano sparite e anche i segnavia rossi sui tronchi. A questo punto ho capito che qualcosa non andava. Ho guardato la guida e con rammarico mi sono reso conto di essermi allontanato parecchio dal tracciato disegnato sulla piantina. Non sapevo cosa fare. Sarei dovuto tornare indietro e ricominciare dal bivio seguendo il sentiero opposto ma non ne avevo voglia, ero troppo distante da quel punto e poi sarebbe stata una perdita di tempo. Intorno a me solo un’alta vegetazione che mi circondava e opprimeva. Non mi restava che affidarmi al mio istinto. Sono tornato indietro di qualche metro riprendendo per un attimo la traccia del sentiero e mi sono accorto che più in basso, nascosta tra grovigli d’erba e una fitta boscaglia, transitava una stradina. L’ho percorsa per un centinaio di metri trovandomi a un certo punto vicino a uno spiazzo erboso dove iniziava un trodo
[1] che s’infilava in mezzo al bosco”. S’interruppe un attimo per dissetarsi. I suoi occhi brillavano d’emozione e guardavano fissi nel vuoto, quasi a rivivere quei momenti. Poi riprese: “… Mi sembrava d’essere precipitato in un libro di racconti. La luce del sole s’infiltrava tra gli alberi proiettando e diramando i suoi raggi sul soffice tappeto d’erba, creando tutt’intorno soffuse e delicate atmosfere fiabesche: mi sentivo in paradiso! Sarei rimasto ancora lì, disteso, ad ascoltare quel silenzio senza fine, a guardare le risplendenti sfumature degli alberi che proiettavano le loro chiome verso l’azzurro chiaro del cielo, a perdermi nei profumi delicati e pungenti di quel luogo così surreale e pieno di fascino … ma non c’era tempo, dovevo andare avanti. Ora il bosco si faceva più rado lasciando intravedere poco più in là un viottolo in costante salita e un grosso castagno con un simbolo rosso sul tronco. Non mi sembrava vero. Ho pensato: “ Forse ci siamo!”. Sono corso diretto verso quel punto e quando mi sono reso conto che proprio lì passava il sentiero, ho tirato un sospiro di sollievo. Finalmente avevo trovato la via alternativa che si congiungeva con il sentiero principale, il resto poi è venuto da sé ”. Rimasi per un po’ in silenzio pensando al suo racconto. L’amico sorseggiò ancora dell’acqua, prese respiro, poi mi chiese: “Manca molto per arrivare in cima?” “No, non molto” risposi. “ Meno male!” – riprese – “ Ora però, mi riposo” e si lasciò cadere pesantemente sulla panca. Guardai quell’uomo di una certa età, con gli occhi compassionevoli di un figlio. Seduto sulla panca con le lunghe gambe tese e divaricate, a più riprese si dissetava per darsi forza e riprendere, un po’ alla volta, fiato. Mi avvicinai ad Anna, la guardai e ci capimmo al volo; qualche istante dopo, erano pronti un paio di panini anche per “ l’avventuriero senza nome ”: così lo ribattezzai, ma solo perché non c’eravamo ancora presentati. Lo invitai a sedersi con noi, a dividere quel poco che avevamo nello zaino e lui, senza farselo ripetere due volte, ringraziando, accettò. Scoprii, mentre consumavamo lo spuntino, che si chiamava Romeo. Non era sposato e viveva da solo. Mi raccontò che nella sua vita da single, gli era sempre piaciuto essere uno spirito libero, senza padroni o rompiballe che lo incalzassero e gli dicessero cosa fare o non fare, senza l’assillo di dover rendere conto a qualcuno e senza la smania di arrivare per forza in orario a un appuntamento.

Sperone riolitico del Buso dei Briganti e sullo sfondo parte della pianura di Valcalaona

A quarant’anni, Romeo, dopo la scomparsa del padre, aveva iniziato un’attività in proprio con un negozio di ferramenta acquistato con i risparmi racimolati in tanti anni di vita da agricoltore, quella stessa che, a malincuore, aveva dovuto abbandonare e alla quale era profondamente legato. Uno dopo l’altro, i suoi fratelli se n’erano andati altrove dove i guadagni erano facili e le fatiche certamente minori. Romeo era stato l’ultimo ad arrendersi. Solo, con la madre inferma da accudire giornalmente, si era trovato ora ad affrontare un nuovo lavoro con altri ritmi e altre responsabilità, ma non per questo si era abbattuto, anzi. Lavorava duro, come aveva sempre fatto e, nel corso degli anni, si prese le sue belle soddisfazioni. L’unica cosa che invece non cambiò in Romeo, fu il suo innato spirito libero di cavallo selvaggio, una qualità (o un difetto?) che la gente che lo frequentava, imparò col tempo a conoscere e ad accettare perché in fondo era un brav’uomo, onesto e leale: questo bastava. Anche nel lavoro, Romeo, aveva le sue idee. Ad esempio, l’orario di apertura e chiusura non era mai lo stesso, apriva e chiudeva le serrande a suo piacimento, mandando in crisi i poveri clienti che desideravano fare acquisti nel suo negozio. Non volle mai assumere personale perché, a suo dire, serviva a poco: era solo denaro buttato al vento; così, il negozio, se lo gestiva personalmente. Voleva sganciarsi da qualsiasi legame o regola. Era fatto così. Perché allora questo insistente desiderio di solitudine? Forse per un perduto amore? O per una scommessa personale? Oppure per dimostrare agli altri che ce l’avrebbe fatta anche da solo? Romeo non seppe darmi una risposta, restò in silenzio e nel suo volto, calò improvvisamente un velo di malinconia. Il vento dei ricordi sembrava essersi impossessato della sua persona, del suo essere. La dura scorza di uomo forte e deciso lasciava spazio alla memoria della sua lontana gioventù. Posò sul tavolo l’ultimo pezzo di panino e fissandoci con sguardo affabile, iniziò a raccontare: “ Ero il terzo di otto fratelli, cinque maschi e tre femmine. Antonio e Francesco, i due più vecchi, stavano al fronte a combattere una guerra assurda. Fin da piccolo sono stato abituato dai miei genitori, al lavoro duro e faticoso dei campi e alla vita umile e solitaria del contadino. Sebbene fossimo in tanti, non ci è stato fatto mancare nulla, non ci sentivamo poveri, anche se di povertà a quei tempi ce n’era tanta. Avevamo campi coltivati a granturco, vigneti che ci davano del buon vino, alberi da frutta dove coglievamo dolci primizie che, sotto le mani esperte e pazienti di nostra madre, diventavano gustosissime marmellate e l’orto, dalla terra buona e fertile, dove si piantava tutto quello che la stagione offriva in quel periodo. Nel complesso, quindi, mi ritenevo un ragazzo fortunato. Vivevamo, insieme ai miei genitori, in una casa costruita negli anni della Seconda Guerra, molto semplice, tirata su a pietre e calce ed era composta di due piani. Sotto stava la cucina, quattro metri per quattro, che dava direttamente sul cortile e dove si passava gran parte della giornata. Su una parete, al centro, vi era un grande focolare che però, nelle giornate fredde d’inverno, riscaldava a fatica. A fianco, un’altra stanza serviva da deposito. Ci si metteva dentro di tutto: conigli, capre, mucche, rastrelli, forche, zapponi; c’era il posto per le sgàlmare[2], che mettevamo quando si andava a lavorare i campi e quello per le scarpe buone, che indossavamo nei giorni di festa: sembrava l’Arca di Noè! Una parte di questo deposito era adibito a “cantina”, dove mio padre teneva custodite delle piccole botti di legno che conservavano il vino fatto con l’uva delle nostre vigne. Nella parte opposta al focolare, vi era una scala che portava al piano di sopra, dove stavano le camere. Eravamo sprovvisti di servizi igienici e quando ci “scappava”, dovevamo andare fuori, dove mio padre aveva costruito una baracca che fungeva da latrina. Nei mesi caldi non ci badavi e andava bene, ma quando iniziava il freddo era una sofferenza!”. Fece una pausa, finì l’ultimo boccone del panino e bevve qualche sorso da una bottiglietta che conteneva un liquido color ambra. Disse che non era tè ma una bevanda energetica consigliata, a suo tempo, da un amico erborista che gliel’aveva indicata apposta per sostenerlo durante le sue lunghe camminate: da allora, la portava sempre con sé. Poi, iniziando a mangiare il secondo panino, riprese. “ Non vi erano altre case nelle vicinanze. A volte capitava di restare senza riso o senza grano da macinare o addirittura senza qualche attrezzo che serviva per lavori di manutenzione. Allora si partiva a piedi o in bicicletta e si andava a prendere quello che ci serviva percorrendo anche diversi chilometri prima di arrivare a destinazione. Quanto ho pedalato! Ricordo che avevo una bicicletta presa in eredità da mio nonno che mi lasciò quando si accorse che non poteva più usarla per problemi alle gambe. Per me, era come possedere una macchina. La tenevo come una reliquia. Pulivo e oliavo gli ingranaggi quasi ogni giorno e se qualcosa non funzionava, ero pronto a ripararla. La usavo, il più delle volte, per delle consegne o per fare un giro intorno al paese, poi la ripulivo e la parcheggiavo agganciandola per le ruote a due grossi ganci da macellaio che calavano dal soffitto della stanza-deposito. E per farvi capire di quanto fosse importante, all’epoca, possedere una bicicletta, vi racconto anche questa. A quei tempi, durante la guerra, di fame e povertà ce n’era tanta, troppa. I miei genitori, come ho già detto, ci hanno tirato su tutti e otto con enormi sacrifici, in silenzio e con dignità. Spesso capitava che ci servisse del frumento da macinare, per cui dovevamo andarlo a prendere da dei parenti che abitavano a Vicenza. Allora lasciavamo le sgàlmare in un posto che sapevamo solo noi, ci infilavamo ai piedi le scarpe buone e partivamo in bicicletta a prendere il frumento. Ritornati a casa, ci caricavamo i sacchi in spalla e andavamo a macinarlo nel mulino che stava distante un chilometro. Finito di macinare, ci caricavamo di nuovo i sacchi in spalla e poi via, spingendo a più non posso sui pedali della bicicletta per arrivare a casa prima che facesse buio. Quante volte mi è capitato di andarci con Cesare!...” D’improvviso, dai suoi occhi spuntò una lacrima che segnò, lentamente, il profilo dello zigomo e con la voce rotta dall’emozione, riprese: “ Cesare era il più piccolo dei miei fratelli, ci separavano solo un paio d’anni. Con lui ho condiviso i momenti più belli e spensierati della mia vita, gli volevo un gran bene e andavamo d’accordo. Parlavamo di tutto, mi sentivo libero di esprimermi e di confessargli ogni problema, ogni piccola cosa che mi angosciava o mi faceva stare male: lui aveva sempre una parola di conforto che mi risollevava il morale.
Pieris Rapae su fiori di lavanda
Era sempre sorridente e pronto alla battuta. Un maledetto giorno d’inverno intriso di nebbia, mentre tornava in bicicletta da una consegna, una macchina non lo vide e lo falciò. Il codardo, invece di soccorrerlo continuò, senza fermarsi, la sua folle corsa assassina. Nonostante l’aiuto di qualche anima pietosa, spirò qualche ora dopo all’ospedale di Monselice”. A questo punto, Romeo prese dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto ancora lindo e si asciugò le lacrime che ora diventavano copiose e mordendosi le labbra per farsi forza e non lasciarsi andare a un pianto liberatorio con un filo di voce, aggiunse: “ Quanto ci siamo divertiti!. Ricordo i bei giorni di primavera, quando si tornava dal mulino e si faceva a gara a chi arrivava per primo al grande albero di ciliegio: chi perdeva, doveva dar prova di coraggio salendoci sopra e prendendo il maggior numero di ciliegie nel minor tempo possibile, prima che il padrone se ne accorgesse e ci cacciasse in malo modo”. Un lieve sorriso fece breccia tra le sue labbra, rasserenando di colpo l’espressione del volto. “ Ho sempre sgobbato tanto nella mia vita. Lavorare la terra, all’epoca, era molto faticoso per questo il contadino ha imparato presto ad arrangiarsi e a vivere sin da giovane la propria solitudine, dove niente ti era riconosciuto e dove tutto era dovuto. Non c’era spazio per la spensieratezza, il divertimento, per una carezza, una parola affettuosa: si doveva diventare uomini subito. Non potrò mai dimenticare quell’anno in cui, nel giorno del mio compleanno, i miei genitori mi fecero la sorpresa di regalarmi un paltò. Un paltò, capite! Chi lo aveva visto prima di allora, un paltò!. Lo presi senza dire una parola, in quel momento non me ne veniva nessuna e restai lì, inebetito per alcuni minuti, a guardarmelo e riguardarmelo addosso. Fu il mio primo, vero regalo: avevo quasi trent’anni”. E proseguì ancora, ricordando: “ Nei freddi inverni, quando la terra si faceva dura come il marmo ed era difficile da lavorare, per proteggerci dal freddo, oltre alle sgàlmare, ci mettevamo anche i calzini di lana. Questi, in breve tempo, diventavano umidi per cui avevamo continuamente i piedi bagnati. Allora, prima di coricarci, li mettevamo sotto il piumino che era posto in fondo al letto. Il mattino seguente, quando al risveglio li andavamo a riprendere, li trovavamo asciutti e induriti come due pezzi di ghiaccio; questo perché le camere erano sempre immerse nell’umidità e nel gelo. In tutto questo, però, c’era anche il lato buono e divertente, quello che andava fuori dalla realtà quotidiana e faceva sognare noi bambini. Quando fuori nevicava e il freddo ci induriva le ossa, i vetri delle finestre, pieni di condensa, si gelavano dando origine a curiosi disegni cristallini che noi ragazzi andavamo a toccare, increduli a quel magico effetto: una volta bastava poco per catturare la nostra attenzione e farci volare con la fantasia”. Romeo era un fiume in piena. Continuando a raccontare la storia della sua vita, srotolava in continuazione i bei momenti vissuti in quei luoghi a lui cari. “ Quando la primavera bussava alle porte, era consuetudine, a casa nostra, cambiare il pavimento che era fatto in terra battuta.
Campanula Persicifolia
Si realizzava, di solito, una volta l’anno, poco prima di Pasqua, quando il tempo si metteva al bello e il sole cominciava ad asciugare il terreno. Con le giornate umide e piovose dell’inverno, l’ingresso era sempre ricoperto da uno spesso strato di poltiglia che noi uomini di ritorno dai campi e gli animali che circolavano in cortile, portavamo inevitabilmente dentro casa. Così, con il passare dei giorni, il fango si ammucchiava sempre di più formando nel pavimento, tante piccole montagnole. Allora nostra madre ci richiamava, dicendoci: “ Su tosi, che stamatina a terasèmo!” ( Su ragazzi, che questa mattina livelliamo! ) Quindi, prendevamo la carriola, il badile, il piccone, la vanga e asportavamo quelle fette di terra per sostituirle con quella nuova. La stendevamo mettendoci sopra della cenere, la bagnavamo un po’ e infine la battevamo, livellandola. Ma poi succedeva che per una decina di giorni, quando ci si sedeva, le sedie si piantavano sulla terra morbida e non si riusciva a spostarle prima che questa, non ritornasse ancora una volta, dura e compatta ”. A quest’ultima frase ci scappò da ridere, pensando per un attimo alla tragicomica scena e anche Romeo, che fino a quel momento era stato serio e compassato, si lasciò andare ad un irrefrenabile “ imboresso
[3]”. Poi, rilassando i muscoli del volto e riassumendo un’espressione seria, concluse dicendo: “ Ora si ride, ma una volta era così. Ci si accontentava di quel poco che avevamo, cercando sempre e comunque di ricavarne il massimo, sapendo benissimo che alternative non ce n’erano: o ci si adattava, o era la fine!". Avevamo ascoltato Romeo con particolare interesse. Quel suo racconto ci toccò sensibilmente. Era come se ci avesse preso per mano e portato a conoscere un mondo nascosto, sconosciuto, lontano dai nostri occhi e dai nostri pensieri. Invece lui l’aveva vissuto realmente, in prima persona e questo ci fece sentire piuttosto a disagio. Anna iniziò a ripulire il tavolo mettendo in ordine ogni cosa. Pensammo che era tempo di rientrare ma prima di andarcene, volevamo salutare come si deve il nostro caro amico che ci aveva regalato parte del suo tempo a raccontarci un pezzo importante della sua esistenza insegnandoci cos’è veramente la vita. Ci venne spontaneo abbracciarlo e lui, timidamente, abbassò lo sguardo: capimmo subito che non era abituato a simili atteggiamenti. Diede un bacio affettuoso sulla guancia di Anna mentre a me strinse con vigore la mano che, nella sua, sembrava proprio piccola. In quella stretta, sentii quanto sincero fosse quel saluto. Osservai ancora quelle mani che, oltre ad essere grandi, erano anche un libro aperto sulla sua vita. Ci caricammo gli zaini in spalla e ci mettemmo in marcia per la via del ritorno. Salutammo ancora una volta l’amico Romeo e lui, agitando la mano, contraccambiò. Erano le tre del pomeriggio di un’incantevole domenica di giugno. Da quel giorno, non ebbi più occasione di rincontrarlo. Una mattina, sfogliando il giornale, vidi l’immagine di Romeo sulla pagina dei necrologi, ci addolorò vedere la sua foto inserita tra la gente scomparsa. Ancora oggi, quando ci capita di ricordare quell’itinerario, un po’ di nostalgia ci vela il cuore e fa luccicare ancora i nostri occhi, immaginando la figura esile e severa di Romeo attraversare, insieme al fratello Cesare, i rigogliosi sentieri del paradiso celeste. 

[1]) Sentiero 
[2]) Scarpe da lavoro 
[3]) Ridere di gusto

Rosa Canina

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martedì 13 maggio 2014

L’ESILE ALBERO

La conca di Teolo con il Pendice sullo sfondo

Era un frizzante sabato mattina di fine ottobre. La giornata si presentava bella e piacevole, con un cielo azzurro tenue attraversato da bianche nubi che giocavano a rincorrersi. I tiepidi raggi del sole, accompagnavano un’aria fresca e pulita che dava sollievo allo spirito. Stavo scendendo con la macchina in direzione Teolo, dopo un’appagante escursione sul Monte Grande. Negli occhi avevo ancora impresse le fiammeggianti tonalità di un incantevole autunno che vestiva di suggestiva bellezza una natura che per tutto l’itinerario non smise di regalarmi momenti di autentica emozione.Continuando a scendere piacevolmente lungo i tornanti che mi riportavano a Villa, intravidi, tra due caseggiati, uno scorcio di paesaggio che attirò la mia attenzione.

Inizio sentiero Monte Grande (Passo Fiorine)
Fu un attimo, un flash, un’immagine appena sfiorata con lo sguardo, ma tanto bastò perché decidessi di fermarmi: il mio desiderio era quello di conoscere la sua reale bellezza e magari fotografarla. Cercai in qualche modo di parcheggiare la macchina, trovando non poche difficoltà visto la precaria posizione di discesa. Per fortuna, proprio in quel momento, si liberò un posto così potei sostare tranquillamente. Ero a pochi metri da dove iniziava la vallata che, in un susseguirsi di morbidi saliscendi, s’incontrava con le frastagliate pareti del Pendice. Con la macchina fotografica a tracolla, iniziai a risalire la strada per qualche metro fino a raggiungere alcune abitazioni poste sotto il livello della strada. In fianco ad una di queste, vi era una stradina sterrata che inizialmente credevo fosse un sentiero. Due alberi di melograno mi davano il benvenuto, mostrando con orgoglio i rossi frutti. Percorsi incuriosito lo stretto budello di terra che s’inoltrava dritto tra la vegetazione.

... percorrendo il sentiero
Camminando, respiravo come fosse un balsamo medicamentoso l'humus del sottobosco e ascoltavo il leggero e ritmato scricchiolio delle foglie secche che si sgretolavano al mio passare. Il sole filtrava la sua luce tra i rami degli alberi creando magiche raggiere che andavano a lambire il terreno. Mi sentivo felice, perfettamente a mio agio in un ambiente che mi trasmetteva forza ed energia. Affrettai il passo ma, con il passare dei minuti, fui preso da un’inconscia eccitazione che pian piano trasformò le mie certezze in dubbi: stavo veramente percorrendo un sentiero? Non conoscevo bene quella zona e per di più, man mano che andavo avanti, la vegetazione si faceva sempre più selvaggia e intricata. Più che un sentiero, sembrava un vecchio tratturo in disuso e poco frequentato. Dove mi avrebbe portato? Valeva la pena continuare o forse, visto anche il tempo incerto, avrei fatto meglio a tornarmene indietro? Smisi di pormi altre domande e proseguii. Ormai ero consapevole di trovarmi dentro a un'avventura e di doverla vivere fino in fondo. Quel tratto di natura appena scoperto mi ronzava con insistenza nella testa, diventando a questo punto un chiodo fisso, una meta da raggiungere a tutti i costi. Alle undici e mezzo un cupo grigiore cominciò a oscurare il paesaggio, scolorendo all’improvviso tutto quello che fin prima era un paradiso di colori. Temetti il peggio, anche perché ero sprovvisto di tutto in caso di pioggia. Rischiai e andai avanti. Dopo aver passato una vegetazione di castagneti e roverella, notai che la luce si faceva sempre più viva e presente. La vegetazione pian piano cominciava a diradarsi, miscelandosi ai pochi spazi d’azzurro rimasti. Vedendo la meta vicina, tirai un sospiro di sollievo. Attraversai ancora un breve tratto di saliscendi, finché mi ritrovai nei pressi di una selletta erbosa ricoperta da un verde talmente invitante, che faceva venir voglia di togliersi via calzini e scarponi e camminarvici sopra a piedi nudi. Feci ancora qualche passo ed ecco aprirsi un fantastico panorama sulla conca di Teolo, sul Pendice e ancora più il là sul Venda, il Vendevolo e il Baiamonte. Abbandonai lo sguardo in quella tavolozza di colori e sfumature che scivolavano giù per la valle, macchiando d’autunno la pianura. Incorniciavano case, lambivano boschi, prati, coltivi, mentre la tenue luce che si era venuta a creare, velava di magia il paesaggio. A un certo punto, come attratto da un magnete, mi girai e … click! Ecco l’immagine che desideravo vedere! Ecco l’inquadratura tanto agognata! Stava proprio lì, davanti ai miei occhi, nitida e reale. Nei pressi di una collinetta si ergeva un alberello, ormai spoglio. Le sue forme flessibili e severe, risaltavano appieno sullo sfondo grigio scuro dei colli. Era l’unico, non ve n’erano altri nelle vicinanze. Sporgeva in avanti come se cercasse di rubare al cielo un ultimo respiro. Il tronco, flebile e smunto, sosteneva rami dinoccolati e secchi; sembrava la mano di un vecchio indebolita dall’età e dalla fatica. Qualche sparuta foglia dava l’impressione di non volersi staccare da chi, per anni, le aveva donato forma e colore. L’insieme mi apparve subito triste e malinconico. Nacque in me un senso di solitudine che mi integrò perfettamente a quel momento. Forse in un ambito diverso, in una di quelle giornate miti e assolate che mettono allegria, quella veduta mi sarebbe apparsa scontata e insignificante; ma in quell’atmosfera così placida e misteriosa accarezzata da una lunare bellezza, tutto mi sembrò surreale e magico. Presi con trepidazione la macchina fotografica. Avevo timore che quell’istante mi sfuggisse, scomparisse nel nulla e allora cominciai a scattare, cambiando inquadrature e tempi d’esposizione.

Colori d'autunno
Ad ogni scatto guardavo sul piccolo monitor, se l’insieme mi convinceva o meno, se la luce esistente creava la giusta atmosfera, se i chiaro-scuri che ne uscivano, valorizzavano del tutto quell’esile albero diventato, all’improvviso, centro assoluto della mia ispirazione. Volevo dar vita a un’immagine che si avvicinasse il più possibile a ciò che avevo in mente e che, una volta sviluppata, apparisse come in un “quadro sublime” dove gli odori e i colori, potessero andare di pari passo alle emozioni e alle sensazioni che in quel momento stavo provando. Ero così assorto e concentrato nelle mie inquadrature, che non mi resi conto dell’assoluto silenzio che mi stava circondando. Distolsi per un attimo la mia attenzione su ciò che stavo facendo e mi guardai intorno. Nessuna macchina, nessun vociare di gente, non un cane che abbaiasse. Niente. Solo il respiro dell’aria che accompagnava il mio. Restai immobile ad ascoltare quella sinfonia di pace, ad inalare fino in fondo quei profumi di terra umida, di foglie marce, di resina, di legna bruciata. Erano odori sparsi nell’aria, giunti a me sotto forma di delicate essenze: inebrianti sensazioni che m’inoltravano nelle silenziose profondità dell’anima. Un alito di vento mi accarezzò il volto; un altro invece, mi portò l’eco di solenni campane che scandivano mezzogiorno.

Foglie rosse
In una breve carrellata controllai sul monitor della reflex gli scatti ottenuti, ritenendomi soddisfatto del risultato raggiunto. Guardai un’ultima volta quell’esile albero, promettendomi di ritornare ai primi tepori della primavera, quando avrebbe nuovamente indossato i colori della vita. Ripresi la via del ritorno a testa bassa, pensando. Il cielo si annuvolò ancora di più, diventando all’improvviso minaccioso. Accelerai il passo cercando di uscire in fretta dalla boscaglia e arrivare sicuro alla macchina. Anche il vento si alzò, aumentando di colpo il fruscio degli alberi mentre le inerti foglie, staccandosi dai rami, si lasciavano andare ad un'ariosa danza. Era bello vederle volteggiare, piroettare, rincorrersi, inghiottite da improvvise spirali che, beffarde, si prendevano gioco di loro spostandole qua e là in un miscuglio di caldi colori, che ravvivavano un ambiente fino a quel momento uggioso e malinconico. Stavo avvicinandomi alla strada, quando un’ondata di profumi invitanti mi fece trasalire e mi riempì di buono le narici: erano gli effluvi del pranzo che provenivano dalle case vicine: un “tourbillon” accattivante e gioviale di odori e sapori che si confondevano in un alone di vera piacevolezza. Passandovi accanto, immaginai d’inoltrarmi all’interno di quelle mura e di sedermi intorno a un tavolo, in compagnia di un bicchiere di vino, al calore amico di vecchi racconti. Sbucai finalmente in strada e m’accorsi che, vicino al guardrail, dove prima sostava una fila di macchine, ora vi era solo la mia. Avevo deciso, prima di tornare a casa, di scattare ancora qualche foto per catturare gli ultimi rivoli d’emozione che quella giornata mi stava offrendo. Mi fermai nei pressi dell’abitazione dove troneggiavano i due melograni che, all’andata, mi diedero il benvenuto. Era una casa non molto grande, un po’ trasandata, dalle pareti color mattone chiaro. Nella facciata principale, ai lati della porta d’entrata, dei balconi malridotti, di un verde che non saprei descrivere, socchiudevano appena i vetri delle finestre. Ogni tanto, qualche spirale di vento si divertiva a farli dondolare avanti e indietro, quasi volesse giocarci. Il fine cigolio che si spargeva nell’aria, somigliava tanto al suono flebile di un lontano lamento, di un nascosto pianto. In un lato della casa, quello meno esposto, macchie di umidità invadevano l’intera parete dando al colore, una tonalità più scura. In qualche punto la tinta iniziava a scrostarsi, formando sottili lamelle arricciate che scoprivano la grigia nudità del muro. In parte alla casa, vi era un piccolo orticello, coltivato con parsimonia, il minimo indispensabile, e uno spiazzo erboso dove un paio di galline dal bel piumaggio grigio, stavano passeggiando come due comari, tutte impettite e fiere di sé. Mentre con la mia reflex provavo alcuni scatti, da dietro i vetri di una finestra, mi apparve un’anziana signora che, con sguardo accigliato e sospettoso, seguiva preoccupata i miei movimenti. Con un cenno del capo e un sorriso la rassicurai, tentando di farle capire che ero lì per altri motivi. Ma l’anziana donna, imperterrita, continuava a seguirmi con occhi sempre più sospettosi. Allora, abbassai “ l’oggetto inquietante” e mi allontanai. La signora, conscia della mia resa, rilassò il suo volto, lasciandosi andare a un’espressione più serena e tranquilla. Poi la vidi scostarsi dal vetro e sparire lentamente dietro la tendina della finestra. Fu un’apparizione sfuggevole, improvvisa, ma che mi rimase impressa negli occhi. In quei brevi istanti, riuscii a leggere nel suo volto seminascosto dalla tendina, qualcosa che mi restò dentro. Le sue movenze, il suo incedere lento e misurato, furono sensazioni che mi trasmisero una sorta di malinconica esistenza, di perpetua solitudine. Qualche mese più tardi, come in un giocoso rincorrersi di circostanze, il vento del destino soffiò sulle nostre strade, facendoci nuovamente incontrare. Un incontro intimo e diretto in cui venne fuori tutta la sua solarità e purezza di donna semplice e genuina. Ripensando a quanto mi era accaduto, discesi senza fretta la strada che mi portava alla macchina. Ai margini del marciapiede, si erano formati mucchietti di foglie multicolori che andavano a sovrapporsi ad altre che pioggia e fango avevano ormai scolorito. Mosse poi dal vento, le foglie appena cadute ricominciavano a librarsi nell’aria andando a posarsi come ali di farfalla su prati, viottoli e giardini, imbrattandoli in una disordinata policromia autunnale. Mi levai dal collo la macchina fotografica, la rimisi nella custodia e la depositai sul sedile posteriore dell’auto. Ero pronto a partire, ma prima mi voltai ancora una volta a guardare quelle due case e quello scorcio che stava nel mezzo, così unico e solitario. Il tempo non migliorava, anzi. Si era formata una leggera foschia che velava, come un vetro opalescente, i colli e la pianura. Scivolando lungo la strada che mi portava verso casa, con il finestrino semiaperto cercavo di carpire nell’aria i profumi dell’autunno, prima che l’inverno, con il suo magico candore, ricoprisse ogni forma di vita per un nuovo, lungo letargo.

Tramonto sugli Euganei


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mercoledì 7 maggio 2014

MONTE CEVA

In cima al Monte Ceva - La Croce

C’è stato un periodo, in cui andavo spesso sugli Euganei a fare escursioni. M’incuriosiva conoscerne gli aspetti, i colori, gli odori. Quel mondo misterioso che ancora non conoscevo, mi attraeva, mi conquistava, volevo scoprirne i segreti più nascosti, più intimi ed entrare a farne parte. Andar per sentieri è sempre stata la mia passione. Ogni volta era una scommessa con me stesso, una continua sfida su cosa avrei potuto incontrare, scoprire, catturare; un susseguirsi di emozioni, di dolci frenesie, di fantastiche suggestioni che si intrecciavano tra di loro, unendosi poi in un unico abbraccio quando all’orizzonte mi appariva la meta. Come quella volta, quando percorsi il sentiero del Monte Ceva. Era una bella giornata di fine aprile con un cielo terso e pieno d’azzurro. L’aria fresca e pulita, portava con sé le deliziose fragranze di una natura che si rinvigoriva vestendosi di nuovi colori. Tutto questo mi mise addosso un irrefrenabile desiderio di partire e andare alla ricerca di nuovi itinerari. Passato il centro di Turri, salii la strada che porta al ristorante Belvedere fermando la macchina nell’antistante parcheggio. Presi lo zaino, l’immancabile Nikon e, attraversata la strada, m’incamminai lungo un esposto e luminoso viale fiancheggiato da alte siepi di pyracantha, che a inizio autunno s’ingioiellano di sgargianti bacche colorate e di biancospino, rivestito da bianche perle che sfoggiavano tutta la loro eleganza, profumando l’aria di dolci essenze. Di fronte, la conica cima del Monte Ceva innalzava come un segno di pace, la sua Croce che da lassù dominava sovrana tutta la pianura. Era lì, in mezzo a tutto quel verde, piccola e solitaria che pareva fatta col fil di ferro. Alcune persone erano già salite a farle visita. Mentre cercavo di immaginare a quale panorama avrei potuto assistere da lassù, vidi sbucare da dietro un muretto, un grazioso bastardino che scodinzolando allegramente, mi si avvicinò. Aveva il pelo bianco, pezzato di un colore ocra scuro che si spandeva anche sulla testa e sulle curiose orecchie piegate in avanti. Il musetto, furbo e attento, era dello stesso colore e faceva risaltare, come un ciuffo di panna montata, la punta del naso. La coda, bianca e pelosa, spolverava l’aria in un frenetico avanti e indietro segno forse, di una reciproca simpatia. Avrei voluto conoscere anche il suo nome, ma non portava nessun collare. Dopo aver ricambiato le sue attenzioni con una carezza sulla testa, m’incamminai in compagnia del pimpante amico che, zampettando lesto e sicuro, si mise davanti a fare strada. Una cosa buffa che mi colpì in quella bestiola, fu il movimento molle e sincrono della punta delle orecchie che andavano su e giù seguendo la singolare ritmica del suo passo, una scena che mi portò alla mente il cagnolino Whisky, il terrier scozzese di “ Lilli e il vagabondo”. Tra noi, s’instaurò subito un buon “feeling” e una sottile complicità. Ogni volta che mi fermavo per guardare il paesaggio o scattare una foto, si fermava anche lui, silenzioso assistente di quel momento; appena riprendevo il cammino, ripartiva di scatto, aspettandomi qualche metro più avanti, ansimante e con la lingua di fuori. Terminato di percorrere il lungo viale, giunsi a un bivio. Lasciai la strada, che proseguiva ancora dritta, svoltando a sinistra e prendendo uno stretto sentiero che saliva ripido tra una fitta vegetazione. Qui, il mio caro amico si fermò, facendomi capire che era giunta l’ora di salutarci. Peccato, mi dispiaceva perderlo per il resto dell’itinerario. Pensavo di aver trovato in lui un amico, un nuovo compagno di viaggio con il quale condividere altri momenti, altre emozioni; mi piaceva l’idea di sentirlo vicino e parlargli, incrociando quei suoi occhi svegli e quel nasetto di panna montata. Dovetti però arrendermi al suo istinto che, alla fine, gli suggerì di fermarsi proprio a quel bivio. Alzò il musetto, guardandomi con occhi dolci, inclinando da una parte la testa come a dire: “Amico mi dispiace, non so andare più avanti, non conosco la strada! D’ora in poi dovrai proseguire da solo ”. M’inginocchiai per salutarlo e lui, abbassando lo sguardo, si lasciò dolcemente accarezzare la testa, mentre la sua folta coda continuava a spolverare l’aria. Mi rialzai e a un tratto, sentii dei fischi e subito dopo, una voce che urlava: “Billooo! Billooo!”. Billo, che nome bizzarro – pensai. Ma più lo guardavo e più mi convincevo di come quel nome gli calzasse a pennello. Sollecitato dalla chiamata, Billo mi diede un’ultima occhiata e voltandosi all’improvviso, corse veloce verso chi lo aspettava. Accompagnai con lo sguardo la sua corsa che s’interruppe in fondo al viale dove, ad aspettarlo, c’era un ragazzino in sella a una bicicletta con agganciato al manubrio, un capiente portapacchi. Prese Billo da terra e lo fece entrare delicatamente nel cestino. Come una molla, la bestiola alzò la testa per vigilare quello che gli accadeva intorno poi si rimise giù, adagiandosi tranquillamente sul nido di vimini. Il ragazzino riprese a pedalare portando con sé Billo e, dopo alcuni metri, lo vidi sparire dietro alle alte siepi agghindate di bacche colorate. Ripresi il cammino, giungendo in uno spiazzo erboso dove spiccava la candida fioritura dell'Aglio Orsino che faceva da preludio agli inebrianti profumi del vicino sottobosco.
Iphiclides Podalirius
Tirai fuori dalla custodia la macchina fotografica per immortalare con alcuni scatti quel bianco tappeto ma mi accorsi, guardando nel mirino, che un bellissimo esemplare di farfalla Podalirio (Iphiclides Podalirius), stava immobile su quei fiori dai petali stellati. 
Ebbi un attimo di smarrimento misto a felicità, per l'inaspettato incontro.
Volevo a tutti i costi non farmi sfuggire un’immagine così unica. Cambiai obiettivo, misi su il tele e, senza indugiare, iniziai a scattare riprendendola, mentre, con grazia assoluta, si librava nell’aria con un rapido battito d'ali, planando elegantemente ora su un fiore, ora su un altro, restando a volte immobile per qualche secondo a suggere il dolce nettare. Ora che avevo fotografato le sue soavi evoluzioni, potevo ritenermi soddisfatto. Ripresi a camminare inoltrandomi sempre più nella folta vegetazione, percorrendo stretti viottoli che s’inerpicavano, con brevi tornanti, verso la cima del Ceva. Di colpo, mi trovai in uno spazio aperto, pianeggiante, dove notai la presenza del Cardo asinino (pianta grassa e spinosa, dal fiore rosa-violaceo), alcune tracce di Fico d’India e del profumato Dittamo, dai petali bianchi e affusolati, venati di rosso e dai lunghi pistilli che sembravano esplodere dalla corolla, come fuochi d’artificio.

Dittamo

Fico d'India
Respirai a pieni polmoni quegli odori aspri e dolci che mi portavano alla mente terre aride e selvagge, venti caldi di scirocco dove tutto è spento e il verde diventa una chimera. Un degradare di nuda roccia e le asperità di alcuni balzi rocciosi, era ciò che ancora mi separava dalla cima; ora la massiccia presenza del Fico d’India, dal polposo frutto amaranto, ricopriva gran parte del terreno, facendolo assomigliare a un vasto giardino rupestre. Tra le sporadiche macchie d’erba, fiorivano le delicate sfumature della Viola del Pensiero e della Cicerchia Odorosa, preziose gemme in mezzo a quel deserto di basalto. Ormai ero prossimo alla cima, vedevo la grande Croce di ferro, luccicare ai caldi raggi del sole. Mi arrampicai ancora, per risalire dei costoni rocciosi, le cui pareti si rivestivano di frastagliate e variopinte chiazze di licheni, dando risalto a uno scenario un po’ brullo. 
Un ultimo sforzo, e arrivai finalmente sulla cresta sassosa che portava alla Croce. Erano da poco passate le undici e il sole cominciava a scaldare ma l'aria, fresca e piacevole, dava refrigerio al mio sudore. Mi tolsi lo zaino e lo posai ai piedi della Croce che ora contemplavo in tutta la sua maestosità. Svettava alta, biblica, sacrale. Le sue forme, semplici e universali, andavano a stagliarsi nell'azzurra intensità di un cielo senza nuvole. Ripresi fiato sedendomi su un piano in ferro, posto alla base della Croce. Mi sentivo un re che, dall'alto del suo trono, dominava, da indiscusso sovrano, tutto il suo regno. Aprii lo zaino, tirai fuori una bottiglietta di acqua e limone e ne bevvi qualche sorso. Mi alzai e andai fino alla rete di protezione ad ammirare quell'infinito oceano che mi ruotava intorno. A 360° gradi tutti i più bei profili dei Colli Euganei rispondevano “Presente!” all'appello, come scolaretti al loro primo giorno di scuola, nella vivida luce di un mattino d'aprile. I monti Rua, Madonna, Grande, Ventolone, Piccolo, Spinefrasse, Orbieso... erano lì ad aspettarmi, impettiti ed eleganti. E poi la pianura, con le perfette geometrie dei campi, la rigogliosa varietà della vegetazione, i laghetti artificiali, piccole pozzanghere in mezzo a quel mare di fervidi colori. E ancora più in là, in un dolce degradare di campi e paesi, fino ad arrivare alle sfumate, ma ben definite, sagome delle Prealpi e all'impercettibile brillio della Laguna. Stetti in silenzio, ascoltando la pace dell’anima e lasciando che i miei occhi s’inebriassero di quell’affascinante spettacolo. In lontananza, i rumori vaghi e ovattati della città mi ridestarono conducendomi per mano a una scontata e grigia realtà. Mi rimisi in cammino, proseguendo lungo la dorsale del Ceva e arrivando a una seconda sommità rocciosa. Da qui proseguiva la stupenda panoramica sulla piana di Monticelli, sul monte Ricco e sulla Rocca di Monselice. Ad un tratto, fui investito dallo svolazzare concitato e confuso di due farfalle (Vanessa Atalanta o Vulcano e Vanessa Cardui o Vanessa del cardo), belle e colorate. 
Vanessa Atalanta
M’incantai a guardarle mentre s’inseguivano in un vorticoso piroettare, fatto di rapidi movimenti e frenetici batter d’ali: mi sentivo spettatore di un loro gioco. Si sfioravano, toccavano terra, si risollevavano e poi via, a perdersi negli spazi aerei della pianura. Un autentico spettacolo faunistico della natura. Poco dopo le vidi tornare e andarsi a posare sopra dei sassi, ricoperti da scure muffe. Il loro continuo rincorrersi, le portava ogni tanto a riposarsi, crogiolandosi all’invitante tepore del sole. Inutile dire che ne approfittai per scattare qualche foto. La natura, a volte, ci mette di fronte a degli spettacoli così unici e irripetibili, che è impossibile far finta di niente e non esserne coinvolti. Guardai l'orologio che segnava le dodici e un quarto. Decisi di tornare indietro e, in poco tempo, raggiunsi la cima principale. Solo con me stesso e con i miei pensieri, restai per qualche minuto immobile a contemplare, in un assordante silenzio, quell'infinità di verde e d'azzurro che mi stringeva, mi avvolgeva, racchiudendomi in sé, come i petali di un fiore. Avrei voluto far volare alta una preghiera, ma quello che seppi fare in quell'attimo fugace, fu sfiorare il caldo ferro della Croce e segnarmi, come cenno di ringraziamento. Raccolsi nel mio cuore quei momenti d'intimità e proseguii il cammino, discendendo per la stessa via dell’andata. Ero saturo di dolci sensazioni. Quel breve itinerario mi regalò una serie così bella d’immagini, emozioni, stati d'animo insoliti e mai provati, che, percorrendo il ritorno, la mia mente ne srotolò ogni fotogramma. In un tratto, dove la boscaglia si faceva più fitta e il sentiero si restringeva, limitando il passaggio ad appena una persona, vidi salire, con passo lento e regolare, una giovane coppia con un bimbo, seguita, a distanza, da quattro ragazzi che, al contrario, procedevano spediti e solerti verso la cima. Mi feci da parte sostando in leggera pendenza, su un piccolo spazio erboso, ai lati del sentiero, per permettere al gruppetto di passare agevolmente. I ragazzi, in poco tempo, raggiunsero e superarono la coppia dileguandosi poi, come agili camosci, su per il ripido sentiero. Il giovane padre invece, un uomo alto, magro, sulla trentina, faticava non poco a tenere seduto cavalcioni sulle spalle, il proprio figlioletto di tre – quattro anni, biondino, un po’ robusto, con due occhietti vispi e pieni di energia. L’infante, nella comoda e insolita posizione, dimenava su e giù le gambette paffute rispondendo divertito alle buffe espressioni di sua madre che, da dietro, lo stuzzicava facendolo ridere di gusto. Quello che invece non si divertiva affatto era il padre che, scambiato per un cammello tibetano, s’ingobbiva sempre più sollecitato dal peso del bimbo e dal suo continuo dimenarsi. Dopo aver assistito al simpatico siparietto famigliare, decisi di muovermi e ripresi a scendere. Passai accanto alla giovane coppia e con un cenno della mano, salutai. Lui, con un movimento lento del capo, contraccambiò continuando ingobbito a cadenzare i suoi passi che diventavano sempre più pesanti e impacciati, mentre sua moglie continuava a divertirsi insieme al piccolo “marajà”. Lasciandomi trasportare dal dolce pendio e superata una serie di strette serpentine, giunsi a una caratteristica scalinata, ricavata sull’umido terreno del sottobosco, con un poggia mani composto da un tronco sottile di castagno scortecciato, che seguiva con armonia la linea semicurva dei gradini. Giunsi così al bianco tappeto di Aglio orsino e, seguendo lo stretto viottolo, alla strada sterrata che mi riportò al lungo viale dove avevo incontrato il mio amico Billo. Arrivai al ristorante Belvedere che erano quasi le una e mezza, trovando il piazzale strapieno di lussuose auto tirate a lucido. Tra queste ne spiccava una, avvolta da larghe strisce di carta bianca, con un grande fiocco sopra il tetto, dei palloncini colorati attaccati qua e là, e dei cartelli con la scritta “ W GLI SPOSI!” , il tutto arricchito dai nomi dei due giovani sposini riportati sul cofano dell'auto con la schiuma spray. La mia invece stava ancora lì, modesta e grigia utilitaria e quasi non si notava in mezzo a tutto quel luccichio di carrozzerie all’ultimo grido. Dal locale, un mormorio confuso di voci festanti si mischiava alle allegre note di un valzer, mentre sull’ampio terrazzo alcuni invitati se ne stavano rilassati su una panchina a smaltire i fumi della festa.

Prima di partire, guardai ancora una volta la cima del Monte Ceva e la sua Croce che ora ritornava ad essere ai miei occhi piccola e solitaria. Raccolsi dentro me le tante emozioni che quella giornata mi aveva regalato, celandole con cura in fondo al cuore. Sulla via del ritorno un pensiero mi attraversò, proiettando la mente a giorni lontani, nascosti, in cui la mia voce tremante di narrante sognatore iniziava a raccontare le straordinarie avventure che Madre Natura, nella sua infinita bontà, mi aveva donato.

Nel magico silenzio del tramonto, lascio che i miei pensieri vaghino liberi, mentre m'abbandono alla leggerezza della vita.

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