Colori d'autunno

Colori d'autunno
“ Storie che vanno via veloci disperdendosi al vento come fili di fumo. Il fumo è testimone di un fuoco. La legna finisce, il fuoco si spegne. Rimane l’odore del fumo, che è ricordo. Del fuoco resta la cenere, che è memoria. Rovistando tra la cenere si pensa al fuoco che fu. Ricordare fa bene, è un buon allenamento per resistere e tirare avanti.” (Mauro Corona)

mercoledì 30 aprile 2014

LA NATURA, QUESTA (S)CONOSCIUTA

Durante il periodo adolescenziale, iniziarono a crescere in me sentimenti che si contrapponevano tra loro portandomi ad essere, nei confronti degli altri, irascibile e poco paziente. Non riuscivo a trovare un mio equilibrio, una mia identità. Sentivo il bisogno di evadere, di estraniarmi dalla realtà in cui vivevo, di spegnere quel fuoco che mi ardeva dentro. Fu allora che conobbi, attraverso libri, manuali e dispense, le meravigliose ricchezze che la natura poteva offrirmi. Cominciai a consultare libri di fotografia, testi naturalistici e manuali di disegno nei quali veniva illustrata, ad esempio, la composizione di un paesaggio o di un albero, la struttura di una foglia o di un frutto, le sinuose forme che potevano avere le ali di un uccello o di una farfalla, scoprii anche dettagli, sfumature, particolari interessanti che, fino a quel momento, mi erano sconosciuti. Si accese così in me il desiderio di conoscere veramente tutto ciò che mi circondava, capii che la natura mi stava venendo incontro, mi porgeva la sua immensa mano per portarmi con sé, dentro di sé. Trovai nuovi stimoli, nuove idee. Di colpo tutto mi apparve chiaro, trasparente. 

La mia bici
Iniziai subito a costruirmi una scatola di compensato, grande quanto bastava per contenere qualche matita, dei colori, delle chine, due o tre pennini e dei pastelli a cera. Poi presi un cartone rigido, lo piegai a metà e ne feci una cartella che mi servisse sia per contenere i fogli (ma andava bene anche carta da pacchi o addirittura i sacchetti del pane, su cui si disegnava benissimo, fatti con una carta color tabacco, liscia e senza scritte), che per farmi da supporto quando disegnavo. Non mi mancava nulla. Anzi sì, qualcosa ancora mi mancava: un mezzo di trasporto! Nessun problema. Possedevo all’epoca (fine anni settanta) una bicicletta Torpado, bella, grande, di color azzurro, a quattro cambi. Me la regalò mia nonna in un lontano compleanno, quando ancora non riuscivo a toccare terra con la punta dei piedi. “Te l’ho presa in crescere!”, mi disse “Così ti andrà bene anche per i prossimi anni”. Non si sbagliava mia nonna, la usai fino all’età di trentacinque anni prima che qualcuno me la portasse via e con lei anche una parte di vita. Era attrezzata, sul retro, di un proprio portapacchi che mi venne comodo per trasportare la cartella e la scatola portacolori. Iniziai così, il mio primo incontro con la natura. In qualunque stagione e con qualsiasi tempo, mi offriva di sé il suo aspetto migliore, mostrandosi bella, attraente, indossando ogni volta l’abito adatto: impalpabile e assorta in autunno, uggiosa e solitaria in inverno, rigogliosa e profumata in primavera, solare e avvolgente in estate. 
Si dava ai miei occhi in tutto il suo splendore, donandomi continui spunti e riflessioni che prontamente trasferivo sul foglio. Un giorno d’inverno, avvolto da una malinconia che attanagliava e velava di grigio i miei pensieri, osservando uno scorcio di paesaggio brullo e desolato, trovai l’ispirazione per scrivere, di getto, alcuni versi dettatimi dal cuore che subito annotai sul foglio, dove stavo disegnando un maestoso albero di castagno, con i particolari della corteccia, dei rami e del frutto. Quel foglio lo conservo tuttora, gelosamente, perché appartiene a un periodo della mia vita che ricordo con nostalgia e tenerezza. Quei pochi versi li intitolai “Solitudine”. Era la giusta sensazione che interpretava alla perfezione, quello che provavo in quel momento. 

SOLITUDINE 


Nella solitudine 
che in rari momenti 
riesco a trovare, 
i miei pensieri, 
le mie domande 
si accavallano tra loro 
creando in me 
confusione, ansia, disperazione. 


Ansimano le mie risposte, 
brancolano nel buio 
e vagano flebili 
nel vuoto assurdo che c’è in me, 
alla ricerca di un proprio volto. 


                                                                                  Padova, 21 febbraio 1979 



... i miei pensieri, le mie domande si accavallano tra loro
Seguirono altri momenti in cui la natura divenne musa ispiratrice delle mie suggestioni, dei miei pensieri, delle mie lunghe pause fatte di silenzi e considerazioni. Nuovi fogli pieni di appunti, disegni, riflessioni, si aggiunsero ad altri in un vortice di bramose emozioni che accentuarono ancor più la mia sete di curiosità. Con l’andar del tempo, però, molte cose iniziarono a cambiare, anche il mio modo di affrontare la vita. Senza rendermene conto, mi ritrovai catapultato in un mondo fino allora sconosciuto al quale sentivo già di non appartenere. Rimpiansi allora gli attimi di evasione, la voglia di sognare che avevo trovato e vissuto rifugiandomi in quel mondo così accogliente e silenzioso. Di colpo tutto svanì, come castelli di sabbia inghiottiti dalla risacca. 
Venne un periodo in cui, ragazzo ventenne, fui costretto ad affrontare un futuro che si presentava incerto e pieno di incognite. Passai momenti difficili, confusi, in cui tutto mi sembrava inutile e scontato, mi sentivo svuotato, spaesato, avulso da ogni cosa: un appiattimento totale! Abbandonai l’interesse per tutto ciò che di buono ero riuscito a costruirmi fino ad allora, perdendo voglia ed entusiasmo; vivevo alla giornata, disinteressandomi di quello che sarebbe potuto accadere il giorno dopo. Ero in completa balìa di onde oscure e selvagge che mi sbattevano da una parte all’altra, senza che potessi rendermi conto in quale direzione mi avrebbero portato. Ogni giorno era uguale all’altro e pian piano mi resi conto che così non potevo andare avanti: dovevo assolutamente voltare pagina. La voltai in un’afosa giornata di fine giugno. Il caldo e l’umidità rendevano l’aria pesante e irrespirabile. Stavo riordinando alcune scartoffie tra i ripiani impolverati della libreria quando, a un certo punto, posai lo sguardo su un paio di libri di montagna che mio padre mi regalò qualche anno prima, conoscendo molto bene la sconfinata passione che mi legava alla natura e alle escursioni dolomitiche. Non so quante volte lessi e rilessi quei libri, so che ogni volta era un’emozione diversa, un tuffo liberatorio su immagini meravigliose che riempivano di straordinaria bellezza e poesia quelle pagine lucide e patinate: paesaggi unici, vette immacolate, tramonti da sogno, baite immerse nel verde vellutato di prati sconfinati, accoglienti rifugi alpini sperduti in un mare di pinnacoli, cenge e creste rocciose. Ne sfogliai uno e, nonostante l’usura, quelle pagine sapevano ancora di nuovo, un misto di carta e inchiostro che mi solleticò il naso. I riflessi del sole che entravano dalla finestra, riempivano di colore e di luce quelle facciate, ipnotizzando il mio sguardo in una sorta d’incantesimo. Riguardai con gli occhi della fantasia quei luoghi impervi, misteriosi e magici, iniziando così a viaggiare. Immaginai di volare su una mongolfiera sospinto da un vento placido, silenzioso e di ritrovarmi ad attraversare montagne, fiumi, pianure, vallate, fino ad arrivare ai profili gentili e sinuosi dei colli. Eccoli i colli, affascinanti come sempre nella loro gradualità di colori che assumono durante l’evolversi delle stagioni. Sentivo il profumo della terra appena dissodata, quello acre del sottobosco dopo una pioggia, respiravo le delicate essenze dei fiori nei giorni di primavera. Guardavo più in là l’immensa pianura, ed ecco apparirmi le malinconiche nebbie di fine autunno, il grigio fumo che esce dai camini e si spande nell’aria diffondendo profumi di legna bruciata, di tavole apparecchiate, di sapori schietti e genuini. Ascolto. Cos’era questa nenia?. Questa cadenza ritmata che sentivo nell’aria ?. Erano le dolci filastrocche che voci roche e tremanti raccontano davanti agli sguardi rapiti di bambini sognanti. La fronte mi grondava di sudore. Dagli occhi uscivano, cristalline, stille salate che lentamente m’ inumidirono il volto cadendo leggere sull’immagine di un crocefisso ligneo che, dall’alto di una cima, dominava una vallata d’incredibile suggestione. Erano lacrime di contentezza, di liberazione. Di colpo, scoprii che in un posto nascosto del mio cuore, esistevano ancora dei sentimenti veri, profondi, che mi avrebbero aiutato a rinascere facendomi riassaporare quelle emozioni, quegli entusiasmi, che da troppo tempo ormai stavano sopiti dentro me. In quei brevi istanti mi convinsi ancora di più che la natura, accortasi della mia indifferenza, voleva restituirmi di sé un’immagine forte e chiara della sua presenza, mostrandosi in tutta la sua grandiosità. Chiusi il libro e, come fosse un oggetto sacro, lo riposi al suo posto. Diedi un’ultima occhiata alla libreria per vedere se tutto era in ordine … Un momento: cos’erano quei fogli che sbucavano da lì dietro in modo così disordinato e confuso?. Incuriosito, spostai una serie di riviste e, con grande sorpresa, mi accorsi di avere tra le mani la raccolta di disegni, annotazioni e curiosità realizzati qualche anno prima, girovagando la natura, in compagnia della mia Torpado. Pensavo proprio di averli smarriti e, sinceramente, ne avevo perso anche il ricordo. Fogli d’album, sacchetti del pane, ritagli di carta da pacchi e cartoncini colorati, fogli di carta velina: un ammasso cartaceo da vagabondo della strada. Presi il blocco di fogli stropicciati e pieni di polvere, li pulii e li posai sul piano della scrivania iniziando a sfogliarli uno ad uno, con calma; annusai il loro odore, sembrava trapelassero ricordi ed emozioni da ogni fibra; l’inchiostro era sbiadito e i segni della matita si stavano uniformando: quello che c’era scritto e disegnato, ormai, aveva perso vita, vigore. Continuai a sfogliarli, riassaporando quei momenti vissuti in piena armonia con la mia “Grande Natura”; cercai di ricordare i luoghi, i profumi che aleggiavano nell’aria, i rumori del silenzio che avvolgevano e riempivano quelle atmosfere così cariche di magia. Momenti indimenticabili passati con spensieratezza ed entusiasmo, momenti di un percorso che restituì un significato diverso alla mia esistenza.

I colori dorati del tramonto

SCRIVERE CON LA LUCE: La fotografia come emozione 

Gli anni passarono veloci, uno dopo l’altro, scanditi dal ritmo delle stagioni e dalle piccole realtà di tutti i giorni. Incominciai a far uscire quello che avevo dentro di me, ascoltandomi di più, cercando di riflettere, di comprendere maggiormente cosa volesse dire vivere la vita, ma soprattutto cercai di capire gli altri. Tutto questo mi fece trovare, finalmente, un giusto equilibrio tra passato e presente; capii, in definitiva, che il tempo lenisce qualsiasi ferita, lasciando intatto nell’animo il desiderio di rivincita. Mi riaffacciai alla vita con piglio ed entusiasmo, realizzando alcuni progetti e portando avanti nuove soluzioni. Le mie giornate, improvvisamente si trasformarono e iniziarono ad avere un altro significato. Riaffiorò anche un vecchio amore che credevo ormai sopito, soffocato, insabbiato dal gelido vento del tempo: la fotografia. Una passione nata in me fin da ragazzino quando, all’età di dieci anni, chiesi a mio padre, per la prima volta, di prestarmi “la macchina per le fotografie” e lui, con totale fiducia e senza alcuna remora, me la consegnò dicendomi: “Adesso vai e fotografa!”. Così, mi buttai a capofitto in questa nuova avventura non più disegnando su carta, ma “scrivendo con la luce[1]”: volevo che il mio sogno di entrare nel fantastico mondo della fotografia naturalistica , si realizzasse. Per prima cosa, andai a comprarmi una fotocamera professionale e affidabile (relegando con dispiacere nell'armadio quella precedente, più modesta, ma ugualmente efficiente), ampliai le conoscenze su tecniche e strumentazioni, consultai riviste memorizzando attentamente gli scatti di grandi fotografi, approfondii lo studio sull’ambientazione, sulla composizione dell’immagine, sulla scelta degli obiettivi e sui tempi d’esposizione: tutte conoscenze fondamentali per la buona riuscita di una foto. Non bastava. Volevo fare di uno scatto, un’immagine unica, imprimere ad essa il mio marchio di fabbrica, lasciare agli occhi e al cuore di chi guardava, un filo d’emozione, un sogno nascosto, degli attimi di poesia. Cominciai a frequentare gli Euganei e a percorrere gli interessanti itinerari del territorio, partecipando ogni tanto a qualche escursione in montagna. La macchina fotografica era ormai diventata la mia inseparabile compagna di viaggio, l’amica del cuore cui confidare i segreti più nascosti, le trasmettevo i miei sentimenti, i miei desideri, le mie incertezze e lei, in una frazione di secondo, ne fugava ogni dubbio, regalandomi immagini che rispecchiavano esattamente quello che avevo in mente in quel preciso istante. Avevo scoperto così un altro modo di interpretare la natura: fotografandola, mi pareva di poter comunicare ad altri le mie sensazioni, le mie suggestioni, i miei pensieri. M’incuriosiva, ma nello stesso tempo mi eccitava: scattare una foto, poi un’altra e un’altra ancora, cogliere l'attimo fuggente, cercare di raccontare in un frammento, in un millesimo di secondo, un’emozione, un particolare stato d’animo, congelarlo e renderlo eterno, mi sembrò qualcosa di incredibilmente meraviglioso. Tutti i miei sensi, allo scatto di una foto, erano presenti alle mille sensazioni che il mio corpo emanava in quei momenti. Momenti unici che non sai se avrai la fortuna di rivivere un’altra volta. Essere lì, nel posto giusto al momento giusto non è facile, lo so, ci vuole fortuna. Del resto, sono proprio gli scatti imprevisti, quelli inaspettati, che alla fine ci resteranno impressi per sempre nella mente. Momenti incantevoli e pieni di fascino. Ammirare un paesaggio dopo un temporale di fine estate, con il sole che irrompe tra le nuvole scure e tumultuose, irradiando i campi e le vallate di colori accesi e saturi che ne risaltano i contorni, facendoli sembrare un “collage” di primi e secondi piani. Restare affascinati nell’osservare le forme geometriche dei campi che, come tasselli di un puzzle, s’incastrano in modo perfetto formando la pianura che ai nostri occhi, appare severa e rigorosa. Abbandonarsi a un suggestivo tramonto, dopo una giornata afosa e assolata, con il sole che a malapena trova spazio tra gli alberi prima di scendere dietro la collina. Lo sguardo, allora, s’innalza ai caldi colori di un cielo striato da nuvole dorate e lingue infuocate, mentre l’animo rimane pervaso da sensazioni uniche, di assoluta pace e serenità.

Pieris Rapae su fiore di lavanda
Seguire il cauto e silenzioso volo di una farfalla, dalle svariate forme e dalle vivaci tonalità, che si posa a succhiare il dolce nettare che un fiore le dona. Assaporare i caldi e variegati colori dell’autunno, mentre il paesaggio si riveste di un’austera eleganza. Nel corso degli anni, ho imparato ad apprezzare la natura sentendo anche i profumi che la avvolgono. Quando vado per sentieri o m’incammino in tranquille passeggiate, il mio “respirare” non fa altro che “fotografare” quel momento, quell’istante, raccogliendo odori e sensazioni che mi portano a riscoprire cose già vissute in un lontano passato, che credevo ormai cancellate dalla mia mente. Respiro il profumo forte del sottobosco, un misto di terra umida, funghi e ceppi decomposti, quello dell’erba bagnata dopo una pioggia, la fragranza inebriante di un fiore, di una pianta, di una siepe, i loro effluvi che giungono improvvisi, portati da una brezza leggera che si rincorre, come un eco di montagna. Annuso il profumo di paglia e stalla che emanano i campi di grano appena falciati che il sole, a picco, trasforma in aridi deserti, l’aroma di mosto che sale dai tini e si espande allegro nell’aria d’autunno, l’odore acre di legna bruciata che arde nei camini, con l’inverno ormai alle porte, simile a quello d’erba e di foglie bruciate che arriva, velato di grigio, dai gelidi campi. Odori tristi e malinconici di giornate fredde e cupe d’inverni interminabili, durante i quali il giorno lascia troppo presto spazio alle ombre scure della sera, quando la gente, terminato il lavoro, rientra nelle proprie case al calore di un focolare, per raccontarsi frammenti di vita vissuta. Fotografare la natura è tutto questo. Profumi, sensazioni ed emozioni cambiano, si rincorrono l’un l’altro, nell’incalzante succedersi delle stagioni, diventando parte di un ciclo perpetuo che pur ripetendosi da sempre, incredibilmente ci sorprende ogni volta. 

[1] ) Fotografia = luce(phos) e grafia (graphis):

lunedì 28 aprile 2014

EMOZIONI DI PRIMAVERA


Vigneti e oliveti visti dal Monte Gemola
Primi giorni di maggio: un venerdì pomeriggio che non prometteva niente di buono. Anna ed io ci apprestavamo a vivere tre giorni di sospirata vacanza grazie a un “ponte benedetto”. Nuvole basse e scure continuavano ad addensarsi nel grigiore plumbeo di un cielo intriso di pioggia. Non ci restava che aspettare fiduciosi l’evolversi della giornata e sperare nella clemenza di Giove Pluvio . Erano circa le cinque del pomeriggio, quando si aprirono le porte del cielo e venne giù il diluvio. Una pioggia fitta e continua bacchettava incessantemente strade, auto, terrazze, persiane e davanzali rimbalzando con tale forza, da rendere assordante il suo scrosciare. Il cielo, dai colori nero-violacei, si accendeva all’improvviso sputando lame saettanti che, a intermittenza, facevano udire il frastuono dei tuoni. Il forte rimbombo scuoteva l’aria e i vetri delle finestre vibravano a tal punto, che sembrava dovessero esplodere. Ad ogni colpo, un brivido gelido lungo la schiena. “Speriamo sia un temporale di passaggio”, disse Anna guardando tra i vetri gocciolanti della finestra. Non fece in tempo a finire la frase, che un altro boato squarciò l’aria. Anna si raggomitolò portando le braccia al petto, quasi a proteggersi. “Sicuramente sì” le risposi, rincuorandola “Guarda, laggiù si comincia già a vedere una striscia d’azzurro. E’ poca cosa, ma vedrai che fra un po’quei nuvoloni lasceranno spazio al sereno”. Intanto anch’io continuavo ad osservare il continuo peggioramento della situazione. Il bel giardino dei miei vicini diventava sempre più un acquitrino, le strade faticavano a digerire tutta quell’acqua trasformandosi in lunghi e rigonfi canaletti, alcune fronde d’albero si spezzarono come pure i bei fiori che avevo esposto nel terrazzo. Il forte vento non dava tregua. Davanti a me un muro d’acqua era scosso dalle forti raffiche, si muoveva in un andamento sinuoso andando a destra e a sinistra come in una danza. Nulla fu più definito, un vortice di sbiaditi colori si mischiava con la pioggia che continuava a venir giù violenta. Distolsi per un attimo lo sguardo dal persistente turbinio, arrendendomi ormai all’idea di passare il week-end rinchiuso in casa. Fui attratto però da qualcosa d’insolito che focalizzò la mia attenzione. Indietreggiai, scostandomi un po’ dalla finestra. Sui vetri fradici di pioggia, si erano formate tante goccioline cadenti che creavano un singolare effetto cromatico. Feci ancora qualche passo indietro e finalmente catturai il fascino e la poesia di quell’immagine. Il vetro era un dipinto e il telaio sembrava lo incorniciasse. Giardini, fiori, alberi, case, strade, cielo, tutto era un tocco di pennello. Come per magia, ogni cosa si tramutò in una tavolozza di colori dalle tinte appena accennate da far sembrare quella lastra trasparente un quadro impressionista di fine ottocento. Restai a guardare in silenzio, come se mi trovassi in una galleria d’arte a contemplare un dipinto. Fu Anna con uno schioccar di dita a destarmi da quell’imbambolamento artistico, facendomi notare che non era il caso che stessi lì impalato a guardare il nulla con occhi stralunati e persi nel vuoto. Mi ridestai e scherzando, cercai di ravvivare l’atmosfera: “Ma come, non vedi?, abbiamo un Renoir e nemmeno te ne accorgi! Lo sai che può valere una fortuna?”. Non capendo nulla d’arte e di pittori dell’ottocento, Anna mi guardò con compassione e, lasciandomi solo con le mie visioni, se ne andò senza dire niente. Alle otto della sera, i rintocchi del vicino campanile ci avvertirono che era l’ora della cena. Anna mise sul fuoco della minestra di verdure e del pesce con le patate. Cenammo con il fragore del temporale che, noncurante della nostra intimità, continuava a sfogare tutta la sua rabbia. Finito di cenare, restammo a tavola ancora un po’ a raccontarci i nostri pensieri e a chiederci, tra un sorso di caffè e un pezzetto di fondente, se l’indomani il bel tempo ci avrebbe permesso di andare da qualche parte o se saremmo stati costretti a trascorrere il resto del week-end andando in giro per centri commerciali. Le ore passavano e fuori il tempo non migliorava. La poca luce che restava, lasciava spazio al fulgido metallo delle saette che tracciavano di bianco un cielo a tinte sempre più cupe. Alle dieci e mezzo di sera, annoiati e piacevolmente rapiti da un senso di sonnolenza, ce ne andammo a dormire. Almeno ci provammo, perché il continuo tamburellare della pioggia non ci fece chiudere occhio per buona parte della notte. Ad un tratto, tutto si quietò e la calma, finalmente, ci fece addormentare. Il mattino seguente fui svegliato di buon’ora da un chiassoso cinguettio di uccelli, seguito a breve dal gruu-gruu di una tortora che trovò sul mio davanzale, un comodo posto d’osservazione per lanciare i suoi gutturali messaggi mattutini. Ancora addormentato, con poche ore di sonno alle spalle e con gli occhi che a malapena riuscivo ad aprire, vidi filtrare attraverso le fessure delle persiane, dei raggi di luce che andavano a riflettersi decisi sulle pareti della camera, formando un luminoso gioco d’onde provocato dalla morbida ondulazione delle tende. Mi alzai di scatto e corsi in cucina. Tirai su le persiane con addosso la curiosità di un bambino mentre scarta il suo regalo di Natale. Aprii la porta del terrazzo, uscii e un’ondata d’aria fresca e pulita m’investì. Fu come alzare i drappi rossi di un sipario dove a primeggiare era la natura. Non c’erano parole che potessero descrivere ciò che provavo in quel momento. Una mattina così bella e radiosa meritava senza dubbio di essere pienamente vissuta. Davanti a me si apriva uno scenario mozzafiato, uno di quelli che in città si vede raramente. Il cielo terso realizzava ogni forma, evidenziava ogni figura, facendola risaltare nell’azzurro intenso. In lontananza, sfumature di rosa davano il buongiorno alla catena delle Prealpi e alle loro creste macchiate di bianco. I profili sinuosi dei colli erano lì, sembrava di toccarli: ogni alberello, ogni particolare era nitido e pulito. Mi posai sul freddo cemento del poggiolo e socchiudendo gli occhi, cercai di respirare il piacere di quell’istante. Un buon profumo di caffè riempiva l’aria del mattino. Mi venne voglia di berne uno. Rientrai, preparai la moka, la misi sul fuoco, presi due tazzine e con cura le posai sul vassoio. Volevo fare una sorpresa ad Anna portandole il caffè a letto e informarla dell’inaspettata sorpresa. La luce crescente del sole che cominciava a bussare con più insistenza alle finestre, mi dava forza e buonumore. Il caffè iniziava a gorgogliare nella moka diffondendo il suo profumo per tutta la casa. Con il vassoio in mano e le tazzine che tintinnavano arrivai da Anna che nel frattempo si stava pian piano svegliando; le porsi la tazzina comunicandole la bella notizia e con dolcezza le lanciai l’idea di una partenza per i colli. Il suo mugugnare, voltandosi dall’altra parte, non mi fece presagire nulla di buono. La sollecitai nuovamente. Questa volta si alzò con la lentezza di un bradipo e, sempre lentamente, tirò su le persiane. Il sole, ora splendente, entrava con luce viva accarezzando le pareti della camera. “Apri la finestra e guarda!” le dissi. La aprì sporgendosi fuori con il busto per carpire fino in fondo i profumi che pervadevano l’aria. Dall’ampio giardino saliva il gradevole odore dell’erba bagnata e quello dolce e resinoso degli abeti che, alti come torri, primeggiavano su tutto il resto della vegetazione. L’umida terra evocava penetranti fragranze di sottobosco, i fiori piantati qua e là e le rose rampicanti emanavano essenze che inebriavano i sensi. Fu presa da un sussulto, i suoi occhi di colpo s’illuminarono ridestandosi dall’iniziale torpore. “ Non so che dire!”, esclamò “ E' tutto così bello … mi sembra di sognare!”. Stentava a crederci. Era un sogno? No, non lo era. La natura, ancora una volta, aveva voluto stupirci donandoci una delle sue meravigliose perle. Non ricordo se Anna mi ringraziò per averle portato il caffè, a quel punto non m’importava. Quello che invece mi rese felice, era l’aver visto il volto di Anna accendersi di gioia in un momento che entrambi sentivamo nostro: ci venne una gran voglia di partire. Come itinerario pensai alla comoda camminata che da Villa Beatrice porta ai bellissimi vigneti di Monte Fasolo. E’un percorso breve ma affascinante, che avevo fatto altre volte sempre però con giornate incerte e nuvolose che non mi diedero mai occasione di ammirare pienamente quell’incantevole paesaggio. Oggi finalmente era la giornata giusta. In breve tempo fummo pronti, sistemammo le ultime cose sullo zaino e partimmo. Il tragitto in auto, fu un’altalena di sorprese perché ogni angolo di verde ci sorprendeva e affascinava. Nascevano in noi nuove emozioni, nuovi entusiasmi: eravamo elettrizzati, euforici. Sembravamo due ragazzini partiti alla ricerca di un fantomatico tesoro, nascosto in chissà quale isola misteriosa, del tutto ignari di cosa saremmo andati incontro.

Rossi papaveri lungo il sentiero
Arrivammo nell’ampio parcheggio di Villa Beatrice, in cima al Monte Gemola, circondati da un fantastico paesaggio. Un’ordinata coltivazione di oliveti e vigneti, dava il via a una magnifica veduta sull’appuntita sagoma del Monte Lozzo, su quelle più tondeggianti del Cinto e del Rusta, sulle case raccolte intorno alla chiesetta di Santa Lucia, sul Monte Cero, sul Monte Castello e, spostando lo sguardo un po’più a destra, sulla vasta pianura che andava ad abbracciarsi alle colline vicentine i cui colori si attenuavano man mano che l’occhio si perdeva all’orizzonte. Avvolti da questo scenario paradisiaco, proseguimmo lungo una discesa sterrata. Ci sentivamo in forze e le gambe rispondevano bene ai nostri passi veloci e sicuri. Eravamo in balìa dell’aria e del suo respiro che ci faceva sentire leggeri e in piena armonia con la natura. Continuammo a seguire il viale e imboccammo via Monte Fasolo. Fatti alcuni metri in piano, arrivammo a una comoda salita che ci portò presso un capitello dove ci stava aspettando una bianca statuetta in gesso di una Madonnina: sembrava una gemma incastonata in un anello di pietra. Portava con sé corone di rosario donate da qualche anima pia. Per terra, su un tappeto d’erba ben rasata, c’erano deposti dei mazzetti di fiori, un paio di lumini e, legata ai piedi della statuetta, una foto a ricordare una persona cara. Dopo una breve sosta e un ringraziamento, continuammo il nostro cammino costeggiando coltivazioni di oliveti e vigneti dove papaveri e denti di leone accendevano con i loro colori quell’uniformità di verde.

Rosa Canina
Più avanti, siepi di rosa canina si mischiavano con la fioritura turgida delle ginestre, rendendo ancora più bello e profumato quell’angolo di paradiso. Una staccionata di legno, ci introduceva in un viale sterrato che tagliava in due una coltivazione di vigneti così tirati e ordinati da sembrare tanti soldatini sull’attenti in una parata militare. Ai margini del viale, due strisce di verde erano punteggiate dai vivaci colori del tulipano, della salvia dei prati, della radichiella e della margherita silvestre, mentre una serie di mandorli accompagnava i nostri passi fin quasi alla fattoria. Arrivati alla Fattoria di Monte Fasolo, dei bei cespugli di ginestra e rosmarino facevano da cornice all’ampia vegetazione di cipressi, abeti, pini e alberi da frutto che popolavano l’ampia vegetazione. Sull’altro versante invece, una cascata di stretti filari si tuffava in un mare ondulato di dolci colline che facevano da preludio ai noti profili del Venda, del Vendevolo, dell’Orbieso e del Ricco. Mentre Anna sorseggiava dell’acqua, mi spostai poco più avanti, in leggera discesa, all’ombra vivificante di un olivo. Lasciai andare i miei pensieri, posandomi sul grosso tronco rugoso e a braccia conserte ammirai estasiato quel verde oceano. Nell’aria, intime fragranze si mescolavano ai piacevoli effluvi della campagna. Un’atmosfera di piacevole abbandono mi pervase. Avrei voluto stendermi su quell’erba invitante per sentirmi accarezzare dalla leggera brezza, assaporando, nel silenzio che mi avvolgeva, quel meraviglioso attimo di pace. Guardai l’ora, erano le undici. Raggiunsi Anna, che nel frattempo aveva visitato i dintorni della Fattoria e le proposi di fare una sosta. Tirammo fuori dallo zaino i panini, l’acqua con limone zuccherata e delle fette di dolce casereccio fatto da lei. Andammo su uno spiazzo alberato poco distante, dove una panchina ci aspettava per consumare con calma il nostro spuntino.

Gladiolo dei campi
L’ombra e i profumi silvestri dell’aria creavano intorno a noi una suggestiva atmosfera di pace e di rilassatezza, da metterci addosso ancora più appetito. Mentre addentavamo con gusto il nostro panino, sentimmo un allegro vociare provenire da lontano. Vagammo incuriositi con lo sguardo, cercando di capire da dove provenisse. A un certo punto vedemmo sbucare in fondo al viale un gruppetto di ragazzini, capeggiati da tre giovani animatori, salire compatti e spediti alle allegre note di una canzone scout. Subito ci chiedemmo: proseguiranno nel loro cammino o si fermeranno qui? La risposta non si fece attendere perché, di lì a poco, li vedemmo accamparsi proprio vicino a noi interrompendo in maniera brusca il nostro attimo di magia. Posarono a terra i loro zaini come fossero sacchi di patate e una volta aperti, tirarono fuori di tutto: pane, cioccolate, biscotti, merendine, lattine di tè e di aranciata, frutta, dolciumi, roba da far invidia anche al più esperto esploratore. Finito di mangiare uno degli animatori, che doveva essere il capo, li chiamò a raccolta e li fece sedere a semicerchio. Una volta seduti, i ragazzi si misero ad ascoltare in religioso silenzio le esaurienti spiegazioni che gli animatori, a turno, esponevano sulla conoscenza e sulle particolari forme di vita presenti sul territorio degli Euganei. Quando a un certo punto uno di loro terminò di spiegare, d’improvviso si scatenò l’inferno. Tutti volevano dire la loro, evidentemente interessati dall’argomento. Chi voleva sapere a quale specie appartenesse un fiore, chi le caratteristiche di un albero o di una pianta, chi, addirittura, chiedeva informazioni sul nome dei colli che vedeva da casa sua. Una confusione di voci, gridolini e risate che mandarono su tutte le furie i tre animatori. Approfittando del caos che si era venuto a creare, una parte di loro si alzò iniziando a correre, zigzagando veloce tra gli alberi e sotto i filari delle vigne. Qualcun altro invece si lasciava cadere, rotolando goffamente sul terreno erboso punteggiato di giallo, poi si rialzava e ridacchiando riprendeva nuovamente la folle rincorsa. L’animatore esausto, pregò i suoi collaboratori, di andare a riprendere il gruppetto di “fuggitivi” e riportarli all’ordine. Non fu un’impresa facile ma alla fine ci riuscirono. Guardai la scena con un velo di nostalgia. Non volevo certo giustificarli, ma vedevo in loro quella sana e spensierata vivacità che anch’io avevo alla loro età. Un’età in cui tutto è bello e trasparente e l’innocenza riempie gli occhi di gioia, tenendo puro lo spirito. Ricordi di una tenera adolescenza si accavallarono nella mia mente come onde in tempesta. M’imbarcai allora sull’arca della malinconia, viaggiando verso i luoghi amati e i volti cari della mia gioventù, quelli che segnarono profondamente la mia esistenza e che ancora oggi ricordo con nostalgia. Dopo aver ritrovato la calma ed essersi rifocillati per una seconda volta, il gruppetto di ragazzini iniziò ad alzarsi. Ripresero da terra il proprio zaino, ora più leggero, se lo caricarono con disinvoltura sulle spalle e, seguendo il passo sicuro delle loro guide, se ne andarono, riprendendo a cantare e a mimare i folkloristici “bans[1]” che un animatore intonava. Mentre le scherzose note si affievolivano lungo il viale assieme ai miei ricordi, Anna ed io decidemmo che ormai era arrivato il momento di riprendere la via del ritorno. Raccogliemmo i nostri zaini e di buon passo riprendemmo a scendere percorrendo nuovamente il lungo viale che attraversava campi e vigneti, con lo sguardo rivolto verso il Monte Rusta che, elevandosi solitario davanti a noi, ci introduceva in una natura bella e rigogliosa. Camminavamo tra due ali di verde bosco irradiato dal sole, tra il profumo dei fiori di campo e il canto delizioso degli uccelli che faceva da sottofondo ai nostri passi orientati sulla via del ritorno.

Dolce nettare
Giungemmo al capitello in pietra, incontrando ancora una volta la candida Madonnina dal volto dolce e rassicurante. Eravamo ormai vicini al parcheggio. Poco distante, vicino a una serie di macchine in sosta, notammo un gruppetto di persone che facevano capannello davanti a una cartina svolazzante che, uno di loro, cercava di tenere ferma sul cofano dell’auto. Dal modo concitato che avevano di parlare, pensammo subito a qualche problema organizzativo o a un’indecisione sulla scelta del percorso. Io e Anna ci guardammo con aria sorpresa e, continuando a camminare, raggiungemmo il gruppetto. Prendendo coraggio, ci presentammo. Parlavano tedesco e questo non ci aiutò. Con poche parole, ma soprattutto con la mimica che solo noi italiani sappiamo esibire, tentammo in qualche modo di fargli capire che se avessero avuto bisogno di un’ informazione o di un consiglio su dove andare, li avremmo aiutati ben volentieri. Dopo un attimo di smarrimento da entrambi le parti, uno di loro si fece avanti e con un sorriso compiaciuto ci rispose: “ Gut, gut, tutto bene … no problema!” e senza aggiungere altro se ne tornò indietro, con noi due che, attoniti, lo seguimmo nel suo gesticolare mentre si riaggregava agli altri. Poi, recuperata la piantina, tutti insieme si allontanarono sventolando in aria quel pezzo di carta consumato e sdrucito, alla ricerca di un altro posto dove poter risolvere le proprie controversie. Ancora frustrati per i modi bruschi e sbrigativi con i quali il teutonico escursionista ci aveva liquidato, proseguimmo in silenzio il nostro cammino mentre, in lontananza, il gruppetto spariva tra le auto in sosta. Il nostro sguardo si addolcì nuovamente alla vista di un’anziana signora che riordinava con cura il suo bel giardino. Rastrellava e uniformava sapientemente la fitta ghiaia raccogliendo poi, con pazienza, gli aghi d’abete che il forte temporale aveva seminato sul prato il giorno prima. Prendemmo la breve salita che portava al parcheggio. Un tiepido sole rendeva l’aria ancora più satura di profumi. Il paesaggio, si era leggermente offuscato ma manteneva intatta la sua straordinaria bellezza. Arrivammo alla macchina. Gocce di sudore scendevano cristalline dalle nostre fronti, infrangendosi sulle guance paonazze e accalorate dalla fatica e dai raggi del sole che, per tutto il ritorno, avevano morbidamente accarezzato le nostre facce. Ci cambiammo, bevemmo dalle borracce l’ultimo sorso d’acqua, depositammo lo zaino lasciando fuori la macchina fotografica per un eventuale click e partimmo. Scendendo, seguimmo la strada asfaltata che portava lentamente verso la parrocchiale di Valle S. Giorgio. Ci sentivamo ebbri di gioia, avevamo ammirato la natura in tutto il suo splendore e questo ci gratificava nel cuore e nello spirito, non solo per aver vissuto intensamente ogni attimo di quella giornata, ma perché ci rendevamo conto di quanto grande, eterno, meraviglioso fosse l’amore di Dio, suo creatore. 

[1] Canzoni e balli di gruppo



Vigneti a Monte Fasolo

Vai al sentiero:
http://www.parcocollieuganei.com/doc/sentieri/FASOLO.pdf











sabato 26 aprile 2014

INVERNO A CALAONE

Calaone d'inverno

Era una fredda domenica di febbraio. Nevicava con insistenza già da qualche giorno. L’aria rigida e secca aveva fatto aderire ancora di più la neve al suolo. Tutto era coperto da un candido manto, tutto sembrava magico e irreale. Un paesaggio incantato e fiabesco mi portava alla memoria vecchie storie di una lontana fanciullezza in cui gnomi, fate, streghe e animali immaginari, popolavano i sogni di notti fantasiose. Il cielo plumbeo e uniforme continuava a mulinare neve che scendeva leggera, impalpabile, posandosi silenziosa su tutto ciò che incontrava, cambiandone completamente l’aspetto.
Un’atmosfera ovattata attutiva ogni tipo di suono: sembrava di stare all’interno di una sfera di vetro. Se continua così, pensai tra me, dovrò prendere la pala per uscire!. Giravo per casa, nervosamente. Ogni tanto, guardavo fuori, con la speranza che smettesse di nevicare. Avevo voglia di uscire, di evadere da quelle mura che mi angosciavano. Allora, mi venne in mente una frase che dissi ad Anna, mia moglie, l’estate prima in una delle nostre tranquille camminate sui colli: “Se quest'inverno ci sarà neve, mi piacerebbe vedere Calaone vestito di bianco!”. Così, senza esitare, presi la decisione che nel pomeriggio mi sarei organizzato per la partenza. Soddisfatto per la scelta che calmava, in parte, la mia voglia di evasione, fui preso da un piacevole torpore e mi addormentai sul divano. Fui svegliato bruscamente dalla voce squillante di Anna che mi avvertiva che era pronto in tavola. Durante il pranzo, intento ad arrotolare con la forchetta degli ottimi spaghetti alla carbonara, mi accorsi che una luce nuova, entrava dalla finestra. Mi precipitai a vedere.

Scie innevate solcano i campi di Calaone
Fuori aveva finalmente smesso di nevicare. Nel cielo, prima grigio e piatto, si erano formati ampi squarci d’azzurro con qualche pallido raggio di sole che a fatica filtrava tra le nuvole. Mi prese un’inconscia frenesia: era la voglia di partire. Chiesi ad Anna se voleva unirsi a me, ma dal suo sguardo corrucciato capii che non era il caso di insistere. A malincuore accettai la sua decisione, non aggiungendo altro. Preparai un po’ di cose che misi alla rinfusa dentro lo zaino, presi l’inseparabile macchina fotografica, testimone e complice delle mie emozioni, salutai Anna e uscii. Fuori, tutto era un riverbero. Ogni cosa rifletteva di luce propria. In una zona dove la neve era più abbondante, un gruppo di ragazzini, con le guance arrossate, giocava a lanciarsi soffici palle di neve (una, per poco, non mi centrò) rincorrendosi con una tale foga da far diventare sempre più paonazze le loro facce e alla fine, stremati, si lasciavano cadere, rotolandosi felici sul soffice biancore. Altri, invece, cercavano di realizzare un pupazzo che immediatamente era preso d’assalto e demolito dai soliti dispettosi che, fra risate e grida, se la davano a gambe. Mi avvicinai alla macchina e, dopo essermi accorto che strade e marciapiedi, lentamente, si scrollavano di dosso quella coltre di ghiaccio che fin prima li attanagliava, partii. Percorsi qualche chilometro e, in breve tempo, giunsi in prossimità dei colli. Erano lì che mi aspettavano, immersi in un ambiente naturale di straordinaria bellezza, vestiti a festa con il loro mantello bianco, elevandosi come bastioni a dominare una pianura ammantata di un argenteo candore, che uniformava ogni forma di vegetazione. Dove invece la neve scarseggiava, uscivano timide dai campi appena arati le zolle di terra che il contadino aveva appena dissodato e preparato a un futuro raccolto. Ora, come avvolte da una coperta, si preparavano per un lungo sonno. Mentre mi avvicinavo alla meta, puntini fluorescenti, brillavano ai raggi obliqui del sole accompagnando, come tanti piccoli cristalli, il mio viaggio. Arrivai ad Este.

Oliveti imbiancati
Seguii l’indicazione per Calaone e iniziai i panoramici tornanti che portavano al paese. Mi fermai a uno di questi. Parcheggiai la macchina in una vicina piazzola. Volevo osservare dall’alto, come si presentava il paesaggio. Sobbalzai. Una vista mozzafiato evocava uno scenario quasi fiabesco che si apriva su tutta la pianura. Era come immergersi nelle malinconiche atmosfere di un dipinto di Monet: tinte delicate e armoniche si miscelavano all’orizzonte con la carta zucchero del cielo. Le case erano macchie di colore appena accennato mentre i rami secchi e spogli degli alberi, si innalzavano verso il cielo come le dita di una vecchia megera addolcendosi a tratti con leggere pennellate di bianco. I campi erano un tocco continuo di bianchi e grigi-azzurri con qualche macchia di marrone e ocra, a testimoniare la presenza della terra. E tutto questo andava a fondersi con un azzurro inizialmente velato che aumentava di densità, man mano che l’occhio innalzava lo sguardo. Respirai a fondo quell’attimo. Un alito di fiato uscì dalle mie labbra e si fece fumo perdendosi con tutte le sue emozioni, nell’aria fredda dell’inverno. Ripresi a salire lasciandomi alle spalle poetiche vedute. Feci gli ultimi tornanti ed ecco, arroccata in un silenzioso candore, Calaone. La immaginavo proprio così, come un caro amico che ti accoglie a braccia aperte stringendoti fraternamente a sé, felice del tuo arrivo e impaziente di raccontarti, vicino allo scoppiettio vivace di un focolare, vecchie storie di lontana memoria. Parcheggiai nel piazzale della chiesa di S. Giustina, resa ancora più bella dai raggi tiepidi del sole che le baciavano la facciata. Al suo fianco, il campanile fiero e imponente le faceva da scudiero.
Mi addentrai tra i vicoli, timoroso di disturbare l’intima pace che regnava in quel luogo. Si udiva soltanto il rumore dei miei passi affondare nel bianco tappeto e le scure tracce che lasciavo, testimoniavano la presenza della mia solitudine. Passai vicino ad alcune case e in una di queste, vi erano alcuni olivi che, stoici e sempreverdi, resistevano come tanti soldatini, alla morsa del   freddo. Sui lunghi rami nodosi, una spessa scia di bianco, ornava il loro profilo e tante piccole ciocche, posatesi qua e là, facevano sembrare le foglie batuffoli di cotone. Ai loro piedi, uno strato uniforme di bianco, faceva intravedere qualche ciuffetto d’erba e, poco distante, risaltava la sagoma di un gattino che, intimorito forse dalla mia presenza, si raggomitolava addosso a un tronco come se cercasse, in esso, calore e protezione. Continuai a camminare, ascoltando il mio respiro in perfetta sintonia con l’ambiente che mi circondava. Le ombre lunghe che il mio corpo proiettava sulla neve erano il segnale che tra un po’ il sole si sarebbe appisolato dietro le colline, sfumando la viva luce del giorno e alzando il velo scuro della sera. 
Presi una stradina che tagliava in due una coltivazione di olivi, incorniciata ai lati da siepi di rosmarino. Da una parte svettava con la sua conca di trachite il Monte Cero, dall’altra, oltrepassato il campo, si poteva godere di una bellissima visuale sulla splendida pianura sottostante la cui luce cominciava a miscelarsi con le tinte offuscate dell’orizzonte. In un avvallamento poco innevato, vicino a una zona boscosa di robinia e castagneti, affusolati tronchi ben sistemati e accatastati formavano una specie di piramide ricoperta da un soffice strato di zucchero filato. Approfittai di quella muraglia di legno, per ripararmi dalle gelide folate di vento che mettevano a dura prova la sensibilità del mio corpo. Disseminati qua e là blocchi di tronchi, tagliati dai forti denti della motosega, sbucavano da sotto la neve. Mi sedetti su uno di questi. Guardai con meraviglia, il lento calare del sole che tingeva il cielo di rosei colori. Quell’atmosfera così quieta e serena mi mise addosso una strana malinconia. Flash di vita tirati fuori da chissà quale polveroso deposito del mio passato, scorrevano via veloci come la pellicola di un film. Dalle lontane coltivazioni una spirale di fumo si levava alta nel cielo e si spandeva rapidamente nell’aria posandosi leggera su orti e vigneti, sbiadendo ogni cosa e portandomi di sé un odore acre. Il sole continuava a scendere, scomparendo lentamente, dietro la linea sfumata dell’orizzonte. Il cielo si rinforzava di rossi, di arancioni, di gialli, fino ad arrivare alle tonalità del rosa e del violetto e tutte insieme si univano, in un solo abbraccio, ai toni crescenti dell’azzurro.

 L'ombra dei vigneti, accarezza d'azzurro il bianco manto  (Calaone)
Prima di congedarsi ed entrare nel ventre della terra, l’abbagliante sfera gialla aveva voluto regalarmi, nel suo ultimo spettacolo, un magico tramonto che mi pervase il cuore. Non avrei più voluto staccare gli occhi da tanta meraviglia, ma il freddo iniziava a pungere e a penetrarmi nelle ossa. Guardai, in un breve scorrere, le foto che avevo scattato durante il percorso. Mi alzai e nella quasi oscurità, mi avviai verso la macchina. Le fioche luci dei lampioni accompagnavano i miei passi in un distendersi irreale di bianco che dava al luogo, un tocco di sacrale misticismo. Sembrava di stare dentro a un presepe o in uno dei tanti paesaggi invernali di Pieter Bruegel. Dal cortile di una vicina casa, arrivavano le grida gioiose di bambini che giocavano a rincorrersi, tenendo fra le mani grosse palle di neve. Più avanti, un vecchio spalava a colpi di vanga il marciapiede, liberandolo dal soffice manto affinché la gente, nel transitare, non scivolasse. Il suo respiro, reso affannoso dalla fatica, provocava intorno a sé un’aureola di vapore che, alzandosi, andava a perdersi tra i rami degli alberi. Su un muretto, all’angolo di una via dove la strada procedeva in ripida salita, era seduto un ragazzino intento a bere del tè fumante. Ogni tanto ci soffiava sopra espandendo il dolce profumo nella brezza gelida della sera. Giunto nei pressi di una casa, da dove usciva il fumo di un camino scoppiettante, il mio sguardo si posò sul volto di un bimbo che sui vetri appannati della finestra, si divertiva a scarabocchiare la liscia superficie con giochi di segni come se stesse disegnando su un foglio d’album. Arrivai al piazzale della chiesa dove echeggiavano dolci litanie: era l’ora della funzione serale. Capii allora che dovevo muovermi. Mi avvicinai alla macchina e nell’aprire la porta, respirai un’altra volta quell’aria che sapeva d’incenso. Tornando indietro per le strette vie del paese mi piaceva immaginare la gente del posto rintanata in un bar o in un’osteria, ad addolcirsi la vita in compagnia di un bicchiere di vino, immersi nel fumo di mille sigarette, o nelle proprie case, al morbido danzare di una fiamma che riflette di luce viva i vetri opacizzati delle finestre, riscaldando, nella magica oscurità della sera, i sogni e le speranze di ciascuno. E pian piano si fa notte. Nel tiepido focolare si assopisce il crepitio delle braci e i camini addormentati emanano l’ultimo filo di fumo nel cielo stellato di febbraio.


Ultime luci a Calaone